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Alzheimer: il farmaco che promette nuove speranze

Alzheimer: il farmaco che promette nuove speranze

A un anno dall'inizio del trattamento i pazienti sottoposti a terapia con anticorpi monoclonali hanno mostrato una riduzione dei livelli di proteina amiloide. La sperimentazione di un nuovo farmaco, che i ricercatori definiscono il più promettente nella lotta contro l'Alzheimer, suggerisce che pot...

A un anno dall’inizio del trattamento i pazienti sottoposti a terapia con anticorpi monoclonali hanno mostrato una riduzione dei livelli di proteina amiloide.

La sperimentazione di un nuovo farmaco, che i ricercatori definiscono il più promettente nella lotta contro l’Alzheimer, suggerisce che potrebbe essere possibile eliminare dal cervello l’accumulo di proteina amiloide, uno dei responsabili della patologia.

Lo studio è stato somministrato ad un piccolo gruppo ed i ricercatori sono ancora molto cauti, ritengono sia prematuro dichiarare sconfitta una malattia così devastante, che ruba la memoria alla gente e sottrae loro le capacità funzionali della vita quotidiana. Ma nonostante i reiterati fallimenti passati dei farmaci usati nella terapia contro l’Alzheimer, la nuova sperimentazione ha comunque suscitato entusiasmo e i risultati sono stati pubblicati oggi su Nature. “Questa è la migliore notizia che abbiamo avuto durante i miei 25 anni di ricerca sull’Alzheimer,” dice Stephen Salloway, professore di neuroscienze cliniche e psichiatria alla Brown University e co-autore del documento.

Quanto più a lungo un paziente nelle prime fasi dell’Alzheimer assume il farmaco aducanumab, e quanto maggiore è la dose, tanto maggiore è la riduzione dell’accumulo di proteina amiloide a un anno dall’inizio della sperimentazione. I 21 soggetti che sono stati sottoposti allo studio con la dose massima dopo un anno ha mostrato una maggiore riduzione delle placche. “L’effetto di questo farmaco non ha precedenti”, dice uno dei co-autori della ricerca, Roger Kitsch, presidente e fondatore di Neurimmune, di Zurigo, che ha inizialmente sviluppato l’aducanumab.

Il farmaco ha anche aumentato il rischio di emorragia cerebrale e di un accumulo potenzialmente dannoso di liquidi nel cervello, e ciò ha obbligato ad un esercizio di equilibrio tra la sua efficacia e la capacità dei pazienti di tollerare una dose sufficientemente elevata. I ricercatori sono stati in grado di individuare i segnali precoci dell’effetto collaterale noto come ARIA (amyloid-related imaging abnormalities – anomalie di immagini correlate all’amiloide) grazie alla RM, afferma Salloway, e nessuno durante lo studio ha subito danni irreversibili.

Lo studio era troppo limitato per dimostrare che la riduzione di amiloide nel cervello comportasse una differenza nelle attività quotidiane dei soggetti coinvolti, anche se c’erano alcuni segnali che il farmaco era in grado di rallentare il declino cognitivo e funzionale in quegli individui che avevano ricevuto la dose massima per più di 6 mesi. La nuova pubblicazione è più approfondita e evidenzia la prima volta che i risultati sono stati sottoposti a revisione paritaria e presentati globalmente, hanno detto gli Autori durante la conferenza del 30 agosto.

La sperimentazione si è rivelata promettente, ma il vero test su aducanumab è in corso in due studi molto più estesi supportati in collaborazione con la società farmaceutica Biogen, partner di Neurimmune per immettere l’aducanumab sul mercato. Questi studi, iniziati lo scorso anno, comprenderanno 2700 soggetti partecipanti in America del Nord, Europa e Giappone, che assumeranno il farmaco per 18 mesi. Se gli studi avranno successo le società faranno richiesta alla FDA statunitense per avere l’autorizzazione a vendere il farmaco ai pazienti.

Salloway e colleghi hanno detto che non si aspettano che aducanumab sia “la” soluzione al morbo di Alzheimer, anche se funziona bene. Come nel caso di altre patologie complesse, il cancro o l’AIDS, è probabile che si renderà necessario un cocktail o una serie di farmaci. Il farmaco sarà molto probabilmente più efficace nelle prime fasi della malattia, quando la rimozione delle placche di amiloide può fare la differenza nel decorso della malattia, ha detto Alfred Sandrock, Vice Presidente e CMO di Biogen, che ha condotto la ricerca e la conferenza stampa.

Aducanumab è un anticorpo monoclonale, una sostanza naturale prodotta dal corpo per combattere la malattia. E’ stato isolato in soggetti sani presupponendo che questi avessero sviluppato fattori di protezione nel loro sistema immunitario. Il funzionamento dell’aducanumab non è ancora del tutto chiaro, nonostante lo studio abbia mostrato che colpisce l’amiloide nel cervello ma non quello nel sangue. Si potrebbe ipotizzare che gli anticorpi che attaccano l’amiloide nel sangue vengano deviati e non raggiungano il cervello. Focalizzandosi sull’amiloide cerebrale, aducanumab sembra in grado di passare attraverso il cervello per raggiungere il suo obiettivo, hanno detto i ricercatori durante la conferenza stampa.

Nei due studi più estesi i partecipanti assumeranno inizialmente una dose inferiore per ridurre il loro rischio di ARIA, che tende a verificarsi più facilmente nelle prime fasi del trattamento, e i soggetti che presentano una copia di APOE ε4, principale fattore di rischio genetico per il morbo di Alzheimer, che sono più vulnerabili a ARIA, probabilmente manterranno un dosaggio basso, secondo Salloway.

Per essere ammessi allo studio i soggetti devono presentare depositi rilevanti di amiloide nel loro cervello, evidenziabili con una PET. Questa “precauzione” consentirebbe di evitare un problema che probabilmente ha dominato i precedenti studi farmacologici. Secondo i ricercatori tali studi fallirono in parte perché comprendevano troppi soggetti il cui livello di amiloide non era adeguato alla sperimentazione e che probabilmente erano affetti più da demenza senile che non da Alzheimer. Si ritiene che i trial precedenti siano falliti poiché avevano coinvolto pazienti il cui disturbo era in una fase troppo avanzata e il danno, ormai, irreversibile. Per contro, aducanumab è stato sperimentato su pazienti che presentavano sintomi precoci della malattia.

Questa settimana altri, che si occupano del morbo di Alzheimer, hanno espresso il loro entusiasmo per l’articolo e per lo studio in corso con aducanumab. “I risultati sono impressionanti e davvero incoraggianti”, dice Rudolph Tanzi, neurologo all’Università di Harvard e da tempo al comando della ricerca sull’Alzheimer. “Il fatto è che [gli autori sono] i primi a mostrare prove che una terapia antimiloide sia un modo per curare o prevenire l’Alzheimer.”

Tanzi dice che se il farmaco darà i risultati sperati negli studi più estesi, potrebbe essere utilizzato in soggetti tra i 40 e i 50 anni che mostrano i primi segni di accumulo di amiloide. Aggiunge inoltre che l’eliminazione dell’amiloide in quella fase e la possibilità di mantenerlo ad un livello ridotto con un altro tipo di farmaco su cui Tanzi sta lavorando, potrebbe prevenire l’insorgenza del morbo di Alzheimer in quei soggetti.

Anche James Hendrix, direttore delle iniziative di scienze globali per l’Associazione Alzheimer, ha elogiato lo studio, dicendo che era sbalordito dalla sua progettazione e dai risultati ottenuti. A suo avviso lo studio riveste una straordinaria importanza anche per i volontari degli studi di ricerca contro l’Alzheimer, per aiutarli a capire meglio la malattia e come curarla. E’ sempre difficile per i ricercatori trovare un numero sufficiente di volontari per completare gli studi, asserisce, e aggiunge che l’Associazione Alzheimer offre informazioni sugli studi in corso sul suo sito web.