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Che cos’è la Sindrome di Stoccolma

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Che cos'è la Sindrome di Stoccolma? Tutto ciò che c'è da sapere: cause, effetti, diagnosi e come si cura questa sindrome post-rapimento.

La Sindrome di Stoccolma è un fenomeno psicologico in cui gli ostaggi esprimono empatia e simpatia e hanno sentimenti positivi verso i loro carcerieri, a volte fino al punto di difenderli. Questi sentimenti sono generalmente considerati irrazionali alla luce del pericolo o rischio sopportato dalle vittime, che scambiano essenzialmente una mancanza di abusi da loro rapitori per un atto di gentilezza. La sindrome di Stoccolma può essere vista come una forma di legame traumatico, che non richiede necessariamente uno scenario in ostaggio, ma che descrive “forti legami affettivi che si sviluppano tra due persone in cui una persona molesta, minaccia, abusa o intimidisce l’altra”. Una ipotesi comunemente usato per spiegare l’effetto della sindrome di Stoccolma si basa sulla teoria freudiana. Si suggerisce che il legame è la risposta dell’individuo al trauma a diventare una vittima. L’identificazione con l’aggressore è un modo con cui l’ego si difende. La sindrome di Stoccolma è talvolta erroneamente indicata come la sindrome di Helsinki.

Sindrome di Stoccolma: cause e comportamenti

La Sindrome di Stoccolma non deriva da scelta razionale, bensì come riflesso automatico. La sindrome, rilevata e studiata poi in tutto il mondo proprio a partire dai fatti di Stoccolma, comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità. Nella stragrande maggioranza dei casi, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l’”effetto della sindrome”, è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale dell’aguzzino, bensì da ciò che questi potrebbe fare e non fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di “sindrome” poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sotto controllo la situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Molti sequestrati, che hanno provato la “sindrome”, hanno dichiarato di soffrire di incubi ripetitivi in cui i loro sequestratori, fuggiti o comunque liberi, ripetevano i fatti precedenti, ma questo non sempre corrispondeva a una diminuzione del legame positivo che si era instaurato a suo tempo. Alcune vittime di sequestri, che provarono la “sindrome”, a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma – fatto da cui nasce proprio la Sindrome – per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all’arresto.

Come si cura

Non esiste una terapia medica standardizzata. La miglior cura per la sindrome di Stoccolma è una psicoterapia gestita da professionisti, specializzati nella cura della dipendenza affettiva, inoltre risulta vitale il supporto della famiglia e degli amici. In alcuni casi è utile anche affiancare alla psicoterapia una cura a base di medicine che deve essere attentamente impostata dallo psichiatra. Si può guarire dalla Sindrome di Stoccolma, ma in certi casi servono molti anni.

I casi famosi

Uno dei casi più famosi di “Sindrome di Stoccolma” riguarda Natascha Kampusch: la giovane ha vissuto segregata col suo rapitore (Wolfgang Přiklopil) dal marzo 1998 al 23 agosto 2006, giorno in cui è scappata. Ha testimoniato di avere avuto più volte la possibilità di scappare, ma ha preferito restare col rapitore. Il motivo della fuga, infatti, non è stato un desiderio di libertà, ma un litigio col rapitore stesso. Agli investigatori e agli psicologi che si prendono cura di lei ha testimoniato dicendo che non si sentiva privata di niente e che è dispiaciuta della morte del suo rapitore (che si è suicidato dopo che era scappata).

Giovanna Amati, figlia dell’industriale cinematografico Giovanni Amati e dell’attrice Anna Maria Pancani, fu sequestrata nella villa di famiglia nel febbraio 1978. Il padre, dopo lunghi giorni di trattative, pagò un riscatto di 800 milioni di lire e la figlia fu liberata il 27 aprile. Si trattò di un rapimento molto chiacchierato: si disse che, durante la prigionia, Giovanna Amati si fosse invaghita di uno dei suoi rapitori, il marsigliese Jean Daniel Neto.