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Chernobyl, ricordo del disastro nucleare

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Trentadue anni fa, a Chernobyl, avvenne l'incidente nucleare più grave della storia dell'umanità. Unitevi a noi per un viaggio nella storia.

Trentadue anni fa, a Chernobyl, avvenne l’incidente nucleare più grave della storia dell’umanità. Unitevi a noi per un viaggio nei ricordi della storia.

La storia di Chernobyl

“Quando ci fu l’esplosione, beh, le pareti tremarono e la luce saltò per un attimo. Mi ordinarono di correre al reattore per raggiungere quelli che ci stavano lavorando. Ma loro ci urlarono, andatevene, scappate via. Ormai siamo tutti già morti.”

Mykola Malyshev ricorda così quella notte del 26 aprile 1986. Lui oggi ha 68 anni, e si trovava in una delle sale controllo della centrale nucleare di Chernobyl, Ucraina, quando l’esplosione strappò via il tetto del reattore e sparse particelle radioattive su metà dell’Europa dell’epoca. Konstantyn Sokolov invece non era un tecnico, ma un lavoratore semplice. La sua voce è resa roca dal cancro alla gola e alle labbra. “Ho visto i miei amici morirmi davanti agli occhi“, racconta.

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Mi ricordo mia madre che mi parlava del panico di quegli anni, la gente che perfino in Italia buttava via il raccolto di una stagione. Tonnellate di cibo distrutte dopo il terrore delle piogge radioattive. Chernobyl fu, assieme a Fukushima, uno dei due soli incidenti nucleari di livello 7 della storia dell’umanità. Fu il peggiore. Ma numeri e classifiche non rendono l’idea quanto le storie delle persone.

Abbiamo deciso, a trent’anni dal disastro, di regalarvi uno speciale sul più grande luogo abbandonato nella storia dell’umanità. Un ricordo di quel momento in cui tutti abbiamo guardato nell’abisso. Chernobyl è ormai entrato nella leggenda, ma non è leggenda: è storia. E la storia non va dimenticata.

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“Me l’hanno chiesto spesso. Perchè ci sei andato. Ma qualcuno doveva farlo. Qualcuno doveva farlo…

– Alexander Fedotov

Li chiamarono liquidatori. Riservisti dell’esercito russo, tra i trenta e i quarant’anni, padri di famiglia e lavoratori. Prima chiamarono i pompieri, poi chiamarono i soldati, poi chiamarono i chimici e i fisici. E poi chiunque fosse in grado di tenere in mano una pala.

Gli ordini erano semplici. Prendi una pala, indossa la tuta protettiva, sali sul tetto, getta la sabbia e torna giù. Poi togliti tutto e seppelliscilo. Le radiazioni erano così forti che l’attrezzatura si poteva usare solo una volta prima che fosse compromessa, e anche quell’unica volta non era abbastanza. Nella zona di Chernobyl è pieno di fosse in cui sono stati sepolti giubbotti, lastre di piombo, o interi camion utilizzati per trasportare i detriti.

La storia di Chernobyl è una storia di orrore e coraggio. Nessuno di quelli che guardarono direttamente il reattore sopravvisse, ma qualcuno doveva gettare sabbia e cemento sul nocciolo. La sabbia si accumulò, creando un vero e proprio forno nucleare al di sotto. Lentamente, la zona del reattore iniziò a fondersi, e la lava radioattiva a sfondare i muri e a farsi strada verso i serbatoi di raffreddamento. Se l’acqua e la lava si fossero toccati, sarebbe avvenuta un’esplosione termonucleare che avrebbe raso al suolo l’Europa dell’Est.

Qualcuno doveva prendere delle bombole e nuotare nei serbatoi radioattivi, arrivare alle valvole, e far fuoriuscire il liquido. Valeri Bezpalov, Alexie Ananenko e Boris Baranov si fecero avanti come volontari. Nuotarono al buio, cercando le valvole di emergenza a tastoni. Ce la fecero, drenando ventimila tonnellate d’acqua. Li seppellirono due settimane dopo, in spesse bare di piombo sigillate con la fiamma ossidrica. I loro corpi erano troppo radioattivi per essere avvicinati.

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“Eravamo tutti li, chimici ed esperti di radioattività, e non sapevamo nemmeno da dove cominciare. Il disastro era fuori da ogni scala, qualcosa di mai visto.”

– Sergii Mirnyi

Ci sono pochi posti sulla Terra che si possano confrontare con la Zona di Alienazione. 2600 chilometri quadrati di solitudine, senza traccia di vita umana. Di gran lunga il luogo abbandonato più grosso di cui abbiamo mai parlato finora. Ogni persona nel raggio di trenta chilometri dal reattore fu fatta evacuare, ognuna costretta ad abbandonare ogni cosa dove si trovava al momento. E in mezzo alla Zona, c’era una città: Pripyat.

Pripyat era stata costruita, ironicamente, per dare un letto ai lavoratori della centrale nucleare. Ospitava 47.000 persone, tutte collegate in qualche modo all’impianto di Chernobyl, che si erano trasferite più o meno volontariamente in questo sobborgo operaio.

La natura sta lentamente riconquistando la città. In trent’anni senza attività umana, la Zona si è lentamente trasformata in un parco naturale, con straordinari livelli di attività animale. È diventata una zona sicura per ogni specie che cerchi un rifugio dall’uomo, anche se ancora oggi le mutazioni sono una costante tenuta sott’occhio dai governi russi e ucraini.

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È possibile visitare Pripyat, e molta gente viaggia per vedere questo luogo unico al mondo. Le regole però sono severe: non si può restare troppo a lungo, non ci si può andare senza apparecchiature per registrare i livelli di radiazioni, ed è assolutamente vietato oltrepassare le aree considerate ancora troppo rischiose. Se volete visitarla potete, ma a vostro rischio e pericolo. Ci sono molti altri luoghi abbandonati che non vi metteranno in pericolo.

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Pripyat colpisce l’immaginazione del mondo da decenni. Da film come Chernobyl Diaries a videogiochi come S.T.A.L.K.E.R., il potere orrendo delle radiazioni è qualcosa che ha scatenato la fantasia di centinaia di autori in tutto il mondo. Ma qualcuno ne ha pagato il prezzo, e non va dimenticato. Chernobyl è un monumento al nostro coraggio, e un monumento ai nostri errori.