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Italia, libertà di stampa e altri rimedi

Roma, Libertà di stampa

Quando a un giornalista viene impedito di riportare una notizia, il diritto stesso di informare viene infangato.

Disambiguazione: se racconti una storia non sei un giornalista, non sei un giornalista se non racconti una storia. E’ dura parlare di una delle professioni più ostili e maltrattate d’Italia, soprattutto se in questo oceano si galleggia pedissequamente nelle costrizioni (e negli equilibri caratteristici del nostro paese) della cosiddetta libertà di stampa: un privilegio di pochi. I numeri del 2018 contano circa 445 aggressioni fisiche ai cronisti, tutte registrate nell’Unione Europea: l’Italia ha il numero di segnalazioni più alto con 83 denunce, seguono Spagna (38), Francia (36) e Germania (25). La vera libertà per intenderci, è quella di poter essere messi in condizione di svolgere il proprio lavoro, o almeno, questo è quanto prevede l’articolo 21 della nostra Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. Suona sempre strano sentire che in un paese civilizzato come il nostro “l’attenzione a questi particolari” non ha mai raggiunto una soglia accettabile. Alla pari di qualsiasi credo e retaggio politico è altrettanto strano negare gli errori di questo governo nel rapporto con la libertà di informazione: quando un ministro come Luigi Di Maio insulta i giornalisti, chiede restrizioni legali agli editori, chiede alle imprese di non fare più pubblicità ai giornali e riduce i contributi (vedi la plausibile chiusura di Radio Radicale) allora possiamo finalmente arrogarci il diritto di sentirci non tutelati?

Libertà di stampa nel mondo

Cani da compagnia della democrazia

Non si tratta solo e unicamente il limite “fisico” imposto agli operatori della comunicazione, piuttosto occorre prendere in considerazione anche i limiti all’onestà intellettuale. Quando a un giornalista viene impedito di riportare una notizia, che si tratti di una protesta, di una conferenza stampa o dell’apertura di un esercizio commerciale, il diritto stesso di informare viene sporcato. Di casi in Italia, se ne contano a bizzeffe. Basti pensare al giornalismo di provincia e a quella strana tendenza di chi organizza le sedute stampa a sedare le domande dei cronisti in erba, o ancora agli organi istituzionali e quelle convocazioni a Palazzo Chigi dove il confronto con gli inviati è quasi sempre, abilmente, dribblato dai vari Giuseppe Conte, Rocco Casalino & co (Quello sulla discussione del caso Siri, più che un incontro è sembrato un comizio). In Francia invece, pare basti uscire con un servizio sui gilet gialli per beccarsi una pallottola di gomma in pieno petto.

Morire in silenzio

La verità è quasi sempre scomoda e molto spesso viene messa a tacere, ma parlare di libertà di stampa significa parlare anche di tutele, quelle non pervenute ai giornalisti che ogni giorno mettono in campo la stessa vita pur di offrire uno spaccato di realtà. Jamal Khashoggi è l’esempio lampante di come in alcuni paesi (in questo caso parliamo dell’Arabia Saudita) la giustizia venga negata: appena cinque mesi dopo il brutale omicidio avvenuto all’interno del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, e nonostante i rapporti dell’Intelligence statunitense confermassero il coinvolgimento del principe saudita, nessuna indagine criminale è stata aperta.

“Se scrivi, ti sparo”

Non tanto lontano dal medio oriente il dibattito sulla protezione di alcuni giornalisti ha preso forma sotto la dicotomica scelta del “sotto scorta” e “senza scorta”: quasi un on/off, con il diritto alla vita non si scherza (vedi Salvini e le scaramucce con Roberto Saviano). In Italia la storia della collega Federica Angeli è il simbolo di chi ha condotto una battaglia personale, fatta di verità e diritti. Inseguita, perseguitata dalla famiglia Spada, la storia della giornalista si può riassumere con un “Se scrivi, ti sparo in testa” è stata questa infatti la minaccia pronunciata alla reporter che nel 2013 pubblicò un’inchiesta sul malaffare di Ostia: la volontà di andare a fondo, di informare, di chiudere e perseguire l’indagine ha prevalso sull’istinto stesso di autoconservazione. Ma allora, quando si potrà finalmente evitare di barattare la propria libertà di vivere con la libertà di stampa?