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Ruba alle poste e viene licenziato: giudice ordina il reintegro

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Aveva rubato quasi 15.000 euro alle Poste, dove lavorava. Ma il giudice del Lavoro, sulla base di inghippi burocratici, ordina di reintegrarlo e di risarcirlo.

Incredibile rovescio di sentenza

L’impiegato ladro, un uomo di 58 anni condannato e poi licenziato per aver rubato 15mila euro dalla cassaforte dell’ufficio postale di Vasto, dovrà essere reintegrato: il giudice del Lavoro non solo ha annullato il licenziamento, ma ha anche ordinato a Poste Spa di versargli un anno di stipendi arretrati e pagare le spese legali.

Questa è la sentenza comminata dal giudice del Lavoro del tribunale di Chieti, Ilaria Pozzo. Sembra incredibile, ma ci sono inghippi burocratici che la rendono più che lecita: anziché trasferirlo, sospenderlo e attendere prudentemente la fine del processo di primo grado, a norma di legge l’ufficio in cui era impiegato avrebbe dovuto licenziarlo in tronco.

Il furto

Nell’estate del 2012 era riuscito a sottrarre 14.500 euro dalla cassaforte, di cui aveva le chiavi, nella sede centrale delle Poste di Vasto, dove lavorava all’epoca.

A tradirlo era stata un’intercettazione ambientale e telefonica: in una conversazione privata, sapendo di essere sospettato dai colleghi e sentendo sul collo il fiato degli inquirenti, valutava se fosse il caso di restituire il bottino: “Mi sa che mo’ glieli riporto…”.

Un paio di mesi dopo il furto, a ottobre 2012, la direzione lo trasferisce a Chieti. E quando scattano le misure cautelari disposte dal giudice delle indagini preliminari, il dipendente infedele viene immediatamente sospeso dal lavoro; per poi essere reintegrato il 12 maggio 2014, un anno e mezzo dopo, su istanza dei suoi avvocati Carmine Di Risio e Marialucia D’Aloisio.

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La battaglia legale

Infine con la sentenza di condanna penale in primo grado, il 22 agosto 2016, le Poste rompono gli indugi: a fine ottobre fanno scattare il licenziamento. A quel punto, il postino ladro avvia una battaglia legale.

All’impiegato ladro era andata decisamente bene anche in sede penale: difeso dagli avvocati Giovanni e Antonino Cerella, era riuscito a evitare la condanna per il reato ben più grave di peculato, di cui era accusato, cavandosela con un anno e nove mesi per appropriazione indebita, con pena subito sospesa e ricorso in Appello da istruire.

Ma è di fronte al giudice del Lavoro che avviene il reintegro, con tanto di pagamento degli arretrati: “La società – è scritto nella sentenza – disponeva sin dal 2012 di tutti i dati sufficienti per procedere a una contestazione disciplinare”. L’attesa “della sentenza di condanna”, quindi, “non si giustifica”: la “contestazione formale” è “irrimediabilmente tardiva”.

Passo falso delle Poste

Di fronte al furto, e con le indagini in corso, le Poste lo avevano subito trasferito a Chieti e sospeso. Ma avevano dovuto riammetterlo al lavoro, su istanza dei suoi legali, dopo una serie di decreti ingiuntivi per recuperare gli stipendi che rifiutavano di pagargli. Così, rieccolo in ufficio a Chieti; ma tenuto a scaldare sedie o poco più, parcheggiato in attesa di condanna, e tuttavia anche questo ora rischia di essere un passo falso: per il demansionamento si profila una nuova battaglia legale.

Soddisfazione dell’impiegato e degli avvocati

Intanto, postino e avvocati si godono questa vittoria: “Sono contento – ha detto l’impiegato al sito vastese Zonalocale – di poter ricominciare a lavorare. Sto rivedendo la luce e, con me, la mia famiglia che mi ha sempre sostenuto”. “Il giudice – spiega l’avvocato Di Risio – ha applicato un principio di civiltà, perché il fatto deve essere contestato tempestivamente al lavoratore altrimenti si annulla il diritto alla difesa. Basta pensare alla difficoltà di cercare testimoni su fatti vecchi un quinquennio. Non è la sentenza a essere assurda, sono loro ad aver agito in modo sbagliato”.

Nella denuncia presentata dal direttore delle Poste, sostiene il collegio difensivo dell’impiegato postale, dicevano di aver svolto accertamenti e trovato riscontri: avevano già tutti gli elementi per licenziare, insomma. Ma non l’hanno fatto, e dopo il danno ecco la beffa.