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Villa Azzurra, ex manicomio dei bambini a Grugliasco

Villa Azzurra Ospedale psichiatrico

Villa Azzurra ex manicomio dei bambini di Grugliasco, oggi è abbandonato, ma le sue mura possono ancora raccontare le sofferenze dei suoi ospiti.

La Legge Basaglia, risalente ormai al 1978, ci ha abituato a non sentire più parlare di manicomi, ma di ospedali psichiatrici e a vedere nei pazienti psichiatrici non pazzi da rinchiudere, ma persone affette da malattie mentali che hanno diritto a cure e trattamenti come qualsiasi altro malato. Prima che lo psichiatra luminare Franco Basaglia aprisse gli occhi alla comunità medica internazionale sulla necessità di rivedere le modalità di cura per i pazienti psichiatrici, era normale riservare loro trattamenti disumani e rinchiuderli nei manicomi, che assomigliavano più a strutture detentive che a delle case di cura. Villa Azzurra era una di queste strutture, e aveva una particolarità: gli ospiti erano pazienti in età infantile; si trattava quindi di un manicomio per bambini. Oggi Villa Azzurra è un edificio abbandonato, in crescente decadenza.

Villa Azzurra, il manicomio dei bambini

A Grugliasco, a pochi chilometri da Torino, sorge ancora l’edificio che per più di 40 anni ho ospitato Villa Azzurra, ospedale psichiatrico infantile, oggi chiamato l’ex manicomio dei bambini. Durante il periodo di attività, la villa si trovava nelle vicinanze di un ospedale psichiatrico femminile e del più famoso ospedale psichiatrico di Collegno.

I bambini ricoverati a Villa Azzurra erano considerati ineducabili e pericolosi per sé e per gli altri; questa classificazione portò a ricoverare anche bambini tra i 3 e i 4 anni. Per loro non era concepito un percorso che li allontanasse dalla malattia e dai manicomi: si trattava quasi di una condanna. Si pensa che i primi pazienti siano stati internati nella struttura nel 1938, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

All’interno della struttura lavoravano medici specializzati in psichiatria e infermieri, i cui unici requisiti erano di essere di sana e robusta costituzione e di aver ottenuto la licenza elementare. Le cure di questi professionisti erano più che altro torture: le indagini successive alla chiusura del manicomio hanno riportato che i bambini venivano spesso legati ai cancelli del giardino interno, ai termosifoni e ai letti anche per più giorni di fila. Può capitare che sia necessario legare al letto alcuni pazienti psichiatrici per contenerne crisi violente, ma non con tale frequenza e sadismo.

Verso la chiusura

A partire dal 1964, con l’arrivo del professor Giorgio Coda come direttore della struttura, le violenze fini a se stesse si mascherarono con la dicitura “trattamento terapeutico” e assunsero una dignità scientifica. Di fatto la situazione per i bambini ricoverati non era cambiata, se non in peggio.

Il professor Coda era precedentemente stato vicedirettore del vicino ospedale psichiatrico di Collegno tra 1956 e 1964 e aveva, in questo modo, potuto sperimentare diverse tecniche di cura da poter utilizzare anche sui bambini. Dal processo svoltosi ai suoi danni, è risultato che Coda faceva combattere tra loro i bambini fino a che erano completamente stremati. Più grave era però il continuo ricorso all’elettroshock come terapia sui suoi pazienti (non solo sui bambini, anche su omosessuali, alcolisti e tossicodipendenti). L’abuso di tale tecnica aveva procurato al professor Coda il soprannome di elettricista.

Giorgio Coda chiamava l’elettroshock elettromassaggio; le scariche elettriche venivano date sia alla testa del paziente, sia ai genitali, soprattutto quando i bambini, dopo esser stati legati al letto tutta la notte, non erano riusciti a trattenere la pipì. Secondo il professore gli elettrodi e le scariche dovevano aiutare i bambini a controllare meglio la propria vescica. Spesso gli elettroshock prescritti da Coda venivano anche effettuati senza pomata e gomma per la bocca, causando così la rottura dei denti dei pazienti, serrati per il dolore.

La condanna di Coda

Il 26 luglio 1970 L’Espresso pubblica una foto di una bambina tra i 7 e i 10 anni legata nuda a un letto di Villa Azzurra, come se fosse crocifissa; l’opinione pubblica insorge e iniziano le indagini sul professor Coda. L’11 luglio 1974 arriva la sentenza del giudice che dichiara Coda colpevole di “abuso di mezzi di correzione” e lo condanna a 5 anni di detenzione, al pagamento delle spese processuali e a 5 anni di interdizione all’esercizio della professione medica.

Sicuramente i soli 5 anni di condanna per il professor Coda non rispecchiano la gravità delle sue azioni, ma all’epoca rappresentavono un traguardo importante, che apriva le porte alle idee portate avanti da Basaglia e all’approvazione di una legge che portava il suo nome, con cui fu imposta la chiusura dei manicomi e regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio.

Chiusura e redestinazione di Villa Azzurra

Nel 1979, un anno dopo la legge Basaglia, Villa Azzurra è stata definitivamente chiusa. Da allora l’edificio è in stato di grave abbandono e non è ancora stato destinato per un nuovo scopo. I progetti per questo edificio sono stati diversi: da una Casa per Studenti a una casa di accoglienza per migranti.

La decadenza della struttura testimonia la crudeltà degli eventi che ha ospitato. Dare alla struttura una nuova vita è però possibile, nella consapevolezza del passato e nella volontà di riscattare i luoghi della Villa e le persone che sono state rinchiuse al suo interno.

Romanzi per approfondire

Il manicomio dei bambini è un romanzo di Alberto Gaino, in cui l’autore racconta la sua tragica esperienza del protagonista a Villa Azzurra, in cui è entrato a soli 3 anni, portato da sua madre, giovane, sola e senza i mezzi per crescere un figlio. Nel libro viene illustrata in modo crudo e freddamente realistico la realtà dei manicomi prima della loro chiusura.

Avevo solo le mie tasche è una raccolta di frammenti scritti da Alberto Paolini, con cui l’autore racconta la sua esperienza personale all’interno di manicomi, senza risparmiare al lettore le atrocità che ha dovuto subire. L’autore, oggi ospite in una casa famiglia, ha passato più di 40 anni tra le mura di istituti psichiatri e ha trovato nella scrittura un motivo di riscatto e salvezza dal dolore passato.