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Il voyerismo sullo stupro di Desirée: se ti interessano i dettagli perversi sei parte del problema

Desirée

La morte di Desirée Mariottini nella narrazione morbosa della stampa: ecco perché i media sono ammalati di voyeurismo.

Desirée Mariottini aveva sedici anni, suo padre era stato denunciato per stalking e lei era stata data in affido ai nonni materni dopo il divorzio dei suoi genitori: per la maggior parte dei lettori queste informazioni non sono interessanti e, di conseguenza, non lo sono per la maggior parte delle testate giornalistiche che si sono occupate della morte di Desirée nei giorni appena successivi al ritrovamento del suo corpo.

Quello che invece è rimbalzato da un titolo all’altro è il tono raccapricciante e morboso che ha caratterizzato la narrazione della vicenda fin da quando è venuta alla luce. Quante persone hanno violentato Desirée? Quanti hanno guardato mentre succedeva? Desirée era svenuta quando è stata violentata? Era già morta? Si prostituiva? Era coinvolta nello spaccio di droga? Conosceva gli uomini che l’hanno stuprata? A tutte queste domande la carta stampata e l’informazione on line hanno fornito una risposta puntuale, ossessiva, chirurgicamente precisa.

Scrivere per voyeur è la nuova perversione della stampa

La parola voyeur è francese e porta con sé una perversione sottile e accattivante, una morbidezza di suono che attrae, in qualche modo che difficilmente siamo in grado di definire.

Siamo tutti un po’ voyeur, che lo si ammetta o no, anche se (si spera) in ambiti diversi da quello strettamente sessuale, a cui questo termine fa riferimento. Quando è utilizzato in maniera appropriata, il termine voyeurismo indica la perversione di coloro che preferiscono guardare altri individui consumare un atto sessuale piuttosto che esserne direttamente partecipe.

Basta allargare appena un po’ il campo di applicazione semantica del termine per scoprire che nella nostra storia l’abitudine al voyeurismo è profondamente radicata. Come si dovrebbero definire i cittadini romani che accorrevano in massa ad assistere alla morte di persone indifese destinate a essere sbranate da feroci bestie esotiche?

Almeno all’apparenza la nostra società ha fatto diversi passi avanti rispetto alla spettacolarizzazione della morte: non si impiccano più le persone in piazza, dopo una guerra non si mostrano più le teste dei nemici impalate sulla punta di una lancia, quando per strada qualcuno muore il suo corpo viene pietosamente coperto con un lenzuolo.

Eppure, in una maniera inaspettata, si scrive di morte molto più spesso di quanto si mostri la morte. Sembra che la parola scritta sia sottoposta a meno censure, che sia concesso alla parola di dire quello che sarebbe immorale da mostrare.

Perché?

Probabilmente perché nella società attuale, in cui siamo più abituati a elaborare immagini più che a elaborare testi, le immagini hanno assunto una valenza comunicativa maggiore rispetto alle parole. Il testo scritto raggiunge meno persone, è meno virale e quindi, paradossalmente, meno controllato.
La spettacolarizzazione della morte
Se il testo scritto oggi si diffonde con maggiore difficoltà rispetto a un’immagine qualsiasi, è necessario utilizzare tutte le tecniche possibile per far sì che anche un mezzo un po’ obsoleto e ormai scomodo come la parola sia condivisa e circoli quanto un’immagine.

Parlare di eros e thanatos, cioè di sesso e di morte, è una scelta editoriale di una semplicità disarmante e di allo stesso tempo di enorme efficacia:descrivere la morte, soprattutto quando causata dall’eros fa vendere copie o, nell’attuale panorama comunicativo, genera visualizzazioni.

Nel caso della morte di Desirée Mariottini questo meccanismo è stato svelato nella più esplicita delle maniere, dal momento che la titolazione della stampa e soprattutto la curiosità dei lettori si è focalizzata esclusivamente sui dettagli morbosi della vicenda.

Era davvero necessario rendere noto il numero delle persone coinvolte nello stupro di gruppo? Era davvero necessario rivelare che Desirée ad un certo punto era svenuta e soffermarsi sul modo in cui i suoi carnefici hanno tentato di farle riprendere i sensi (probabilmente per continuare ad abusare di lei)? Era necessario ricostruire con tanto di cartina tridimensionale gli spostamenti di una ragazza sedicenne in una delle zone più degradate di Roma, dalla stazione Termini fino al punto in cui avrebbe trovato la morte?

Se da un punto di vista strettamente giornalistico fornire tutti i dettagli possibili su un caso potrebbe risultare almeno corretto a livello metodologico, negli anni passati il pubblico televisivo è stato educato a un’evoluzione della scrupolosità del cronista (soprattutto del cronista televisivo), che negli ultimi anni ha cominciato a dotarsi di tutti gli strumenti possibili per rendere immersiva la propria narrazione. I telespettatori, e soprattutto i telespettatori di un certo tipo di programma, hanno preso familiarità con plastici di edifici e di strade, ricostruzioni precise al minuto degli spostamenti del carnefice o delle vittime, spiegazioni dettagliatissime del cosa, del come, del chi.

Il delitto di Cogne e la casa di Annamaria Franzoni sono indiscutibilmente il simbolo di questo tipo di giornalismo che si sforza, a ogni costo, di tenere incollati gli spettatori allo schermo con la promessa dell’ennesimo dettaglio scabroso che rimarrà impresso nella memoria collettiva per decenni.

Quid iuvat? Cui iuvat?

A queste domande, antiche come la nostra civiltà, si dovrebbe trovare una risposta il più presto possibile: a cosa serve? A chi serve?

Desiree San Lorenzo

Il lupo è nero, gli sciacalli sono bianchi

Sui social è circolata in maniera tangente alle informazioni sulla morte di Desirée un’osservazione di tipo statistico: le donne uccise da uomini bianchi negli ultimi dieci mesi sono state centinaia ma di quasi nessuna di esse l’opinione pubblica ricorda il nome.

A chi giova la diffusione di tutti questi dettagli morbosi?

Non alle donne uccise, che si trovano a non essere protagoniste nemmeno della loro morte; non alle donne ancora vive, che si trovano ad essere educate ad avere un sacro timore solo di un certo tipo di maschio e di un certo tipo di essere umano.

La spettacolarizzazione della morte di Desirée attraverso la parola pubblica della stampa, della televisione e del web giova soltanto a chi ha bisogno di aumentare il livello di paura contro una determinata categoria di persone.

La perduta vocazione educativa della stampa

Dopo aver delineato la preoccupante tendenza alla morbosità della stampa attuale, rimane da chiedersi se e quando questa pericolosa china discendente si invertirà.
Probabilmente questo avverrà quando ci si comincerà a porre domande differenti in merito alla morte violenta e a chiedersi per quale motivo una ragazzina di sedici anni sia arrivata a prostituirsi e drogarsi senza che la famiglia ne avesse idea, senza che le istituzioni la sostenessero, senza che le fosse concessa un’alternativa diversa rispetto al morire per una dose di droga in un cantiere dismesso nel centro di Roma.

La morte di Desirée Mariottini nella narrazione morbosa della stampa: ecco perché i media sono ammalati di voyeurismo.