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Brescia, muore dopo 31 anni di coma: vittima di un incidente nel 1988

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Anni duri per la famiglia, che sperava nel miracolo: "Sapevo che poteva accadere, ed è successo all’improvviso, quando non ce lo aspettavamo".

Morto a Brescia all’età di 54 anni Ignazio Okamoto, l’uomo rimasto in coma per 31 anni a seguito di un incidente stradale avvenuto nella primavera del 1988, dove perse la vita il suo migliore amico Nicola Luigi Mori. Parla la madre al Giornale di Brescia: “Ci siamo isolati dal mondo“.

Brescia, muore dopo 31 anni di coma

Ci hanno sperato fino alla fine i genitori di Ignazio Okamoto, fino a venerdì 23 agosto, dopo tre decenni di lotta, ma alla fine non ce l’ha fatta e si è spento. Cito, com’era soprannominato dagli amici e conoscenti, è morto dopo 31 anni di coma, dopo un gravissimo incidente d’auto avvenuto nella primavera del 1988. Giorno quando l’auto su cui viaggiava era uscita di strada lungo il tratto della A22 del Brennero e dov’era morto il suo migliore amico Nicola Luigi Mori. Ne hanno dato notizia gli ormai anziani genitori, che gli hanno dedicato la vita forse nella speranza di tornare a vederlo sorridere: Cito, madre bresciana e padre messicano aveva origini giapponesi, è morto dopo aver passato più della metà della sua vita in stato vegetativo, da quel drammatico 19 marzo 1988, quando 23enne rimase immobile venendo attaccato ad una macchina.

“Noi, isolati dal mondo”.

“Mio marito ha lasciato il lavoro e per 31 anni ha seguito in casa nostro figlio, per tutto questo tempo ci siamo isolati dal mondo“, ha spiegato la madre di Cito, Marina, al Giornale di Brescia, raccontando il calvario vissuto insieme al marito e padre Hector, occupatisi del figlio sin dal primo giorno. “Ho 77 anni, anche mia moglie non è più giovane, e da tempo pensavamo a chi si sarebbe preso cura di Cito quando non saremmo più stati in grado”, le parole di Hector a La Repubblica: “Per noi non è stata una decisione su cui abbiamo ragionato tanto: pur avendo qui in zona tante strutture che avrebbero potuto accogliere Cito, abbiamo quasi subito voluto che stesse con noi. Era quello che andava fatto, e che mi sentivo di fare”, ha spiegato l’uomo quando gli è stato chiesto come si decide di assistere in casa un figlio in stato vegetativo. Anni duri per la famiglia, soprattutto i primi, per l’impatto emotivo e la speranza sempre accesa: “All’inizio abbiamo sempre avuto la speranza che qualcosa cambiasse, che ci fossero dei miglioramenti, i primi cinque anni sono stati duri”. L’uomo ha ripreso le parole della moglie Marisa, tornando sui 31 anni di isolamento: “Abbiamo un altro figlio, di sedici mesi più giovane di Cito, ma è il mondo che, in qualche modo, è venuto da noi: fino a quando c’è stato il servizio militare obbligatorio la Caritas ci mandava a casa i ragazzi obiettori di coscienza per aiutarci ad accudire Cito, a cambiarlo, a lavarlo. E poi in tanti ci hanno aiutato, anche economicamente, e penso a don Armando Noli e a chi, in tutti questi anni, non ci ha lasciati soli.” Il collegamento inevitabile alla storia di Eluana Englaro: “Non ho mai pensato di giudicare la scelta di un altro padre, di altri genitori. Ho rispetto per tutti, ogni storia è diversa. So che noi abbiamo sempre pensato che fosse questa la cosa giusta, per noi. Sapevo che poteva accadere – la morte di Cito – ed è successo all’improvviso, quando non ce lo aspettavamo.” Dopo due anni in una struttura ospedaliera, l’allora 23enne fu portato nella sua casa a Collebeato, dove non ne è più uscito. Il miracolo, intravisto e sempre sperato, quando raramente sono scese delle lacrime dagli occhi di Cito, poi mai avvenuto. La famiglia ha fatto sapere che Cito verrà seppellito nel cimitero del paese, sotto terra. “Una persona che non conoscevo mi ha fatto i complimenti per la nostra forza. Ma non credo di meritarli, abbiamo fatto quello che sentivamo fosse giusto. Adesso vorrei un po’ di tranquillità”, ha infine concluso Hector.