> > Crocifisso in aula: per gli italiani è come la pace nel mondo per Miss Italia

Crocifisso in aula: per gli italiani è come la pace nel mondo per Miss Italia

Crocifisso in aula

Quella di Cristo sulla croce e nelle aule è diventata una questione di puntiglio, come la pace nel mondo per Miss Italia.

Che poi oggi, a ben vedere, quella di Cristo sulla croce e nelle aule è diventata una questione di puntiglio, limacciosa e di tigna, una roba che per l’italiano medio è come la pace nel mondo per Miss Italia, un mantra da ripetere con la stanchezza di chi mangia la buccia e scarta la polpa.

Crocifisso in aula: vecchia storia

Nata ormai anni fa dopo i primi grandi scossoni ai governi confessionali d’Italia, quella del crocifisso nelle aule si è trasformata nel tempo da questione etica di pancia vera a maniglia ideologica di acume bizantino, la più bassa macelleria che al nazareno potesse toccare, a lui e ai suoi detrattori di icona.

Già, perché prima la faccenda era davvero roba da gonfiare la milza, ma prima prima, quando cioè la laicità di uno stato come l’Italia era e restava comunque screziata dal fideismo di un paese che al cristianesimo indigeno un po’ diceva grazie e un po’ urlava “nun t’allargà”, prima e più che considerarlo intima confessione da difendere o ring per supporter da tastiera.

Quella era l’Italia che non rinunciava, neanche sul versante laico, al candido (in tutti i sensi, a metterci la maiuscola) integralismo di Guareschi. Un’Italia che amava le sue maestre mannare pronte a piallarci le mani con bacchette simili a pale da fornaio. Oggi è diverso. Oggi il crocifisso deve restare sul podio. Così è funzionale alla premiership politica e al range di consenso di chi lo impugna a clava o a quelli di chi gli porta l’ingiunzione di sfratto.

Questione di abitudini

E Cristo c’entra poco, è evidente. Gente come il neo Ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che per scavarsi una nicchia di visibilità si è fiondato sui social e ha sollevato per l’ennesima volta l’annosa questione morale di cui, a ben vedere, non importa a nessuno. Nella forma ovviamente importa, perché l’Italia è nata formale e gli italiani venerano le formalità più del Papa e del calcio messi insieme.

È nelle formalità che scatta la polemica, il guazzabuglio opinionista, e sale il termometro dei social. Qui si schierano quelli che lo vedono come un essenziale parte di mobilio e quelli che arriverebbero a metterli tutti insieme ad emulazione di quei vecchi e cari falò savonaroliani. E tutto per nutrire ego e bottega, senza far danno ma facendo più clamore possibile. Che pena!

La croce della discordia

Nel ciclo di Mondo Piccolo, ad un certo punto il rossissimo Peppone non ce la fa più. Dopo l’ennesima scazzottata con quell’immortale pretaccio nero della Bassa su questioni di Ostia e Popolo, senza farsi vedere passa davanti all’altare e si leva il cappello dalla testa, salutando il “nemico”, che lo guarda dalla croce sull’altare. Era a casa sua, per carità, ma è proprio sulla questione “domicilio” che diventiamo tutti ciclicamente cretini.

L’Italia di oggi è quello stesso mondo, un Piccolo Mondo Antico, dove il sindaco comunista minaccia di spazzolare con un “palo di gaggia” la giunta intera, se al funerale della Maestra Vecchia qualcuno obietterà al fatto che, come da suo volere, sulla bara sia posta la bandiera del Regno d’Italia anziché quella della Repubblica. Forse cose così non sono mai successe, ma che durante l’alluvione del Po del 1951 tutti si fossero rimboccati le maniche, rossi, neri e bianchi, è dato storico.

Davvero una questione di priorità?

Perché noi italiani siamo fatti così: per trovare il meglio di noi stessi abbiamo bisogno delle emergenze, dei disastri, delle tragedie unificanti. Siamo sull’orlo del baratro e comunque preferiamo bisticciare intorno a questioni futili o essere litigiosi simulacri di una grandezza che forse non abbiamo mai avuto.

Corriamo a spulciare codici e sentenze per vedere se Cristo debba essere inquilino privilegiato, a pari merito o baraccato delle aule scolastiche. E sono quelle stesse aule dove i nostri figli non studiano e non si preparano ad un futuro che oggi li vorrebbe sparati dritti in urna elettorale già a 16 anni. La metà di loro, dopo aver lasciato le aule, abbandonerà il paese e andrà in Inghilterra, dove forse sulle pareti delle scuole ci sarà la Regina, ma dove almeno un povero Cristo, con un po’ di fortuna, potrà vivere del suo lavoro e solo in seguito scegliere se pregare, bestemmiare o semplicemente fregarsene di tutto.