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Ius Culturae, chi ha paura dei bambini di 6 anni?

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Lo Ius Culturae rappresenta l'ennesimo tentativo di allontanare dall'immaginario collettivo lo spauracchio della “cittadinanza facile”.

È passato quasi un decennio da quando abbiamo iniziato a parlare di Ius Soli e diritto di cittadinanza. Abbiamo sperimentato diversi nomi nel tentativo più o meno maldestro di allontanare dall’immaginario collettivo lo spauracchio della “cittadinanza facile”, che dopo l’aracnofobia sembra ormai la paura più sentita dagli italiani. Una paura che non si riesce più di tanto a razionalizzare né tanto meno a motivare, è quasi più una questione di principio, una rivalsa sociale. “La cittadinanza te la devi meritare, devi soffrire, te la devi sudare, non te la posso regalare!”. Cosa significhi di preciso non si sa, né si capisce a quanto deve salire questo conto prima di poter servire la cena e garantire cosi i diritti fondamentali di tutti quei bambini nati o cresciuti in Italia. Il dibattito oggi gira attorno al nome di Ius Culturae, tentativo semantico disperato, perché di fronte alla cultura, si sa, risulta più difficile dire un “no” secco.

Che significa, poi, Ius Culturae? Al momento la discussione è ferma alla possibilità di riconoscere la cittadinanza ai bambini che abbiano concluso un percorso scolastico di almeno cinque anni, tradotto dopo la fine delle scuole elementari. Parliamo cioè di bambini che all’età di undici anni si potrebbero veder riconosciuto il diritto ad essere italiani.

La parola ai bambini

Chiariamoci, non è certo il “sentirsi italiani” il tema, quella differenza loro giustamente non la comprendono proprio. Basta farsi un giro fuori dalle scuole primarie e parlare con i ragazzini per capirlo, per trovare già ragazzini di tutte le nazionalità che si considerano migliori amici senza comprendere alcuna differenza tra essere italiani davvero per lo Stato o per se stessi. Loro già parlano italiano, già sono nati qui, già parlano i dialetti locali. Cosi per Piazza Pulita ho raccontato le storie di alcune famiglie a Sesto San Giovanni, comune dell’hinterland milanese ex roccaforte rossa. “Io sono italiano però da piccolo sono nato in Egitto”, dice Youssef con un sorriso ingenuo. “Sì, sono italiano, però anche peruviano. Cioè i miei genitori lo sono ma io non ci sono mai stato”, dice Carlos.

Non è d’accordo la signora italiana che non si fa alcun problema ad urlare davanti ai ragazzini ed ai microfoni che “sono già in troppi, altro che cittadinanza, loro sono sporchi e portano malattie”. Un linguaggio inquietante non solo perché violento ma anche perché privo di ogni logica. Gli stranieri fanno paura a prescindere e sono dei “succhia welfare” che devono ringraziarci, non possono chiedere niente perché “è già tanto quello che gli diamo”. In questo clima di confusione e pressapochismo generale le classi dirigenti sono chiamate e prendere delle decisioni importanti e prendersi delle responsabilità pesanti. L’eterno dilemma se pensare alle prossime elezioni o alle prossime generazioni.

Chi ha paura dello Ius Culturae?

Nell’opinione pubblica, non solo italiana, è molto sentita la preoccupazione verso la parte irregolare del fenomeno che risulta nella percezione comune anche enfatizzata rispetto ai numeri reali. Esiste invece un ampio riconoscimento che gli stranieri bene integrati forniscano un contributo alla crescita del paese in cui vivono. Ed è proprio su questa parte che dovremmo avere il coraggio di investire. Ma sono solo parole, la realtà è che va sempre più di moda l’annientamento dei diritti fondamentali, la ricorsa all’esasperazione dei cittadini cosiddetti “integrati” che tanto ci piacciono a parole. Dalle mense del caso Lodi fino alle case popolari che proprio a Sesto San Giovanni non vengono quasi più concesse agli stranieri perché dovrebbero portare un certificato dal loro paese di origine che nemmeno esiste.

Padre di questo provvedimento è proprio quel Claudio D’Amico dell’affare russo, assessore alla sicurezza a Sesto San Giovanni che ai microfoni di Piazza Pulita sostiene una tesi surreale. La cittadinanza per il responsabile affari internazionali della Lega sarebbe addirittura controproducente, i genitori cattivi infatti potrebbero riportarli nel paese di origine e “islamizzarli, radicalizzarli”, sfruttando il passaporto italiano. È cosi che la tesi dei “succhia welfare” entra sempre più prepotentemente nelle coscienze collettive, nel dibattito politico e nelle convinzioni dei cittadini.