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Naufragio a Lampedusa: la guerra è in mare, non nella loro terra

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I morti nel Mediterraneo sono arrivati a essere, negli ultimi sei anni, 18mila: dove si combatte la vera guerra?

Tutte le morti hanno lo stesso peso morale su chi guarda da lontano. Ma non tutte impongono riflessioni uguali. Nella notte tra domenica e lunedì un barchino di migranti si è capovolto a poca distanza da Lampedusa. Ventidue i sopravvissuti, e le persone a bordo erano una cinquantina, e tra loro diversi bambini. Tredici finora le vittime recuperate ed è bastato già a chiamarla la “strage delle donne”. E qui c’è una prima riflessione da fare, senza tempo. Sono pochi tra i migranti africani quelli
che hanno una confidenza con l’acqua, e sicuramente tra essi non ci sono donne, tenute ai margini della riva nei paesi musulmani e sempre appesantite da vestiti che ne imbrigliano la libertà.

Ma anche nei paesi cristiani, o tra le etnie animiste, la condizione femminile non si discosta molto. Sta di fatto che nel crudo bilancio di un naufragio si sono salvati i maschi (più forti ? meno distratti dal compito di salvare i bambini?), e cioè esattamente il contrario della vecchia regola di mare: prima le donne e i bambini. Non resta che constatare che anche in fondo alla graduatoria delle disperazioni esistono delle classi – tra chi può pagare una barca buona, dotata di salvagente, ad esempio, e chi no – e permane una disuguaglianza di genere, come un bagaglio trascinato in viaggio (è facile purtroppo immaginare la diversità della condizione femminile in Libia, prima ancora di salire sulle barche).

La seconda riflessione ha invece a vedere con il tempo, con il quadro politico. Nelle morti dei mesi scorsi gli umori delle passioni vedevano la responsabilità dei porti chiusi di Salvini, e gli umori contrapposti presentavano un calo delle vittime come un risultato del calo delle partenze e dunque un successo di iniziative dissuasorie. Le morti della notte tra sabato e domenica non chiamano in ballo Salvini, e forse neanche il nuovo ministro dell’Interno e il nuovo governo, che pure ha dato segnali di cambio di rotta nella questione.

Non viene chiamato in causa neppure il lavoro delle ONG e quello delle Marine militari, dato che il barchino era quasi arrivato a Lampedusa. Né possiamo prendercela con il destino: non c’era maltempo, il barchino si è rovesciato a causa dello spostamento brusco di chi stava a bordo, all’ approssimarsi dei soccorsi.

Insomma sono morti- che costituiscono il tasso di mortalità- è atroce parlare così di donne e bambini e persone…- imprevedibile nelle circostanze e prevedibile nell’incidenza statistica del traffico di esseri umani in qual braccio di Mediterraneo. E dunque puntano il dito sulla nuda realtà della questione, molto al di là dei tempi eterni e brevi delle polemiche tra destra e sinistra: si può riportare questo flusso nella legalità, con concessione di visti e corridoi umanitari, aerei e traghetti? Quante persone possiamo accogliere ogni anno con dignità e prospettive di integrazione, specie adesso che la disponibilità di altri paesi europei appare raffreddarsi? Come affrontare le crisi climatiche e demografiche del continente africano nel lungo periodo?

Se non si affrontano queste domande, teniamoci le polemiche di cortile, le indignazioni vuote e le paure confuse, l’emergenza fatta abitudine. Ma non usiamo l’alibi delle guerre, a giustificare le emergenze. Tra le quasi 8000 persone sbarcate quest’anno in Italia il numero più alto (2232) è costituito da tunisini. Tra le prime dieci nazionalità non ce n’è una colpita da un conflitto. E i morti nel Mediterraneo sono arrivati a essere, negli ultimi sei anni, 18mila. La guerra, è lì.