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Con il dolore inascoltato della mamma di Sondrio muore l'ultima speranza di un'Italia ormai senz'anima

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Il triste episodio di razzismo avvenuto a Sondrio ci mostra l'immagine di un Paese smarrito nell'indifferenza e non più capace di provare empatia.

Le urla di una madre che ha perso suo figlio sono disumane come disumano è quello che le innesca. Non c’è bisogno di ascoltarle, basta immaginarle e forse questo è l’unico caso in cui l’occhiuto e secolare mantra del giornalismo se ne va in deroga mogia e netta. Perché lo sai, perché lo sappiamo tutti che un petto che si solleva a raccogliere aria per ulularla fuori di fronte al cadavere di tua figlia di 5 mesi è petto squassato da una mina, che quelle non sono lacrime ma sfere di piombo fuso e salato di sangue con cui cola via la tua sanità mentale, il tuo stare a fuoco nel mondo.

Il dolore non chiede permesso

Il dolore, quello puro, agghiacciante e con la manopola al massimo non conosce pudore, regola o contesto. Semplicemente esplode e chi ti guarda se lo sente arrivare addosso come un’onda sgradita ma sacra e, solo per un attimo, si affaccia dalla finestra del tuo inferno e prega, Dio, Giove, Cartesio o il comodino, prega per te e perché una cosa simile non capiti mai a lui. Perché è morta una bambina cazzo, è morta e la madre era lì con lei, a spellare i secondi con i denti – la vescica lenta e l’acufene della tragedia a sibilare nelle orecchie rosse di pressione impazzita – secondi che la separavano dall’uscita di un medico con un verdetto fra i denti.

Insomma, la mamma di Sondrio si meritava un’altra Italia. È vero, quello che è accaduto ha ancora i toni fumosi di una cronaca umorale ed affidata alla sola testimonianza di una donna presente, altrettanto vero è che, per la più parte, le persone sono solidali con il dolore e nessuna involuzione culturale potrà mai abbattere la struttura etica di un popolo che una volta a scuola studiava la simpatia nell’accezione classica, la partecipazione emotiva cioè. Però le eccezioni sono tante, troppe e troppo biecamente selettive per non farci preoccupare. Viene il ghiaccio allo sterno e germina lo spleen dell’orrore nel pensare a quelle persone che avrebbero dato della “scimmia” urlante a quella madre e che avrebbero blandamente chiosato la tragedia con la “consolazione” che gli africani sono prolifici e “tanto ne fanno uno all’anno”.

Un’Italia sempre più indifferente

Si perché, a proposito, e in un paese normale non lo avremmo mai dovuto precisare, la mamma squassata dal dolore è nigeriana e questo, nella percezione del fatto, ha cambiato tutto, quel tanto che basta per farci fare una domanda e sciorinare le sue gemelle inevitabili: quand’è che siamo arrivati a questo? Qual è stato l’esatto momento in cui ciò che temevamo potesse succedere in ipotesi estrema è diventato prassi culturale, tanto da divenire vomitevole copione in un cantuccio della società delicato come un ospedale in cui muore una fagottina di cinque mesi? Come abbiamo fatto a diventare capaci di latrare un’indifferenza così olimpica al dolore, di usare i social come maglio di intolleranza e certa politica come sartoria demoniaca per le nostre nuove spalle strettine di persone che prima di piangere con il prossimo gli chiedono il passaporto?

A Sondrio se n’è andata l’ultima speranza di trovare un’anima a questo paese che ormai si genuflette con la stessa voracità con cui fa l’elenco delle cose davanti alle quali genuflettersi avendo a mente un agghiacciante pedigree razziale. E le campane del Natale alle porte, quelle urla, non le riusciranno mai a coprire, perché il dolore è potentissimo se lo condividi ma diventa invincibile se chi hai affianco non se ne prende un po’ sulle spalle.