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Serve davvero trovare un mostro per l'incidente di Corso Francia?

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Se ci scagliamo contro Pietro Genovese per l'incidente di Corso Francia è solo per esorcizzare la paura che lì, al posto suo, potevamo esserci noi.

Ventenne, di buona famiglia, qualche guaio con la droga, figlio di un personaggio conosciuto del mondo del cinema. Diciamoci la verità, Pietro Genovese è la persona perfetta da condannare. No, non da un giudice in un’aula di tribunale, ma nell’aula – ben più ampia – dei social; ma prima ancora della nostra rabbia. Già, perché – salve le responsabilità che saranno decise dai giudici, quelli veri – l’odio che sta venendo vomitato in queste ore sul ragazzo è il vero punto oscuro dell’omicidio di Camilla Romagnoli e Gaia Von Freymann.

Pietro Genovese, il perfetto capro espiatorio

Perché se le due 16enni sono scomparse quella maledetta notte di sabato 21 dicembre in corso Francia a Roma, per Pietro lo stillicidio si compie quotidianamente. Sia chiaro, chi scrive non vuole prendere le sue difese: dovrà pagare le sue colpe se ha sbagliato, ed è comprensibilissima la rabbia di chi conosceva le due ragazze e sa che per colpa della velocità, del maltempo e dei riflessi rallentati dall’alcol di Genovese non potrà più abbracciarle. Quello che vorrei far capire è che Pietro è un adolescente e che il peso del suo gesto se lo porterà avanti per anni, anche quando l’eventuale pena sarà scontata. E non solo perché i sensi di colpa non si spengono così facilmente con il passare del tempo, ma anche perché ci sarà sempre bisogno di trovare un ‘mostro’ da additare quando ci tornerà alla mente il sorriso di Camilla e Gaia.

La colpa, va detto, è anche dei media, che come in ogni storia cruda scavano chirurgicamente nel passato del possibile colpevole per offrire in pasto ai lettori i particolari più crudi. Che inevitabilmente li aiuteranno a confermare la sentenza di condanna che dentro avevano già sviluppato. Di casi ce ne sono tantissimi; da pugliese ricordo ad esempio un altro omicidio che coinvolse un giovanissimo, anch’esso guarda caso raggiunse velocemente le cronache nazionali. Parlo dell’omicidio della 16enne Noemi Durini, per cui è stato condannato il fidanzato Lucio Mazzi.

Anche allora – a settembre del 2017 – gli studi delle trasmissioni televisive e le interviste sui giornali pullulavano di parenti, amici e conoscenti dei due fidanzati salentini che provavano a ricostruire quanto è successo. A sostituirsi ai magistrati per compiacere la folla, formando il puzzle che avrebbe composto la figura del ‘mostro’. Già, ancora il mostro, quello che tutti noi vogliamo trovare. Il capro espiatorio, una simbologia che affonda le sue radici sin dall’antichità: “Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto” (Levitico 16, Antico Testamento).

La terza vittima dell’incidente di Corso Francia

L’omicidio delle due 16enni prima o poi non farà più notizia, diventando un ricordo da allontanare, come tanti altri episodi di nera finiti fuori dai riflettori. Ma mentre attendiamo il prossimo caso macabro su cui vomitare odio per esorcizzare la paura che lì, al posto di Pietro, potevamo esserci noi o i nostri figli, magari fermiamoci un attimo a riflettere. E a provare a capire che il ragazzo forse non è il carnefice, ma solo la terza vittima di una storia che porta con sé solo dolore. E quando accadrà di no, non fermiamoci a puntare il dito, chiediamoci invece cosa si poteva fare per evitare un dramma di tale portata che ha rovinato per sempre le vite a tre famiglie.