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Coronavirus, reportage dalla terapia intensiva dell'ospedale di Cremona

Terapia intensiva Cremona

«Non è un'influenza». Il racconto a Notizie.it di Alessio Lasta, inviato di Piazzapulita, che con il suo reportage dalla terapia intensiva dell'ospedale di Cremona ha reso visibili gli effetti del Coronavirus.

La rianimazione è un corridoio lungo e stretto che ha per affaccio stanze protette da vetri dietro cui 12 pazienti affetti da Covid-19 lottano per sopravvivere, intubati e sedati. Mentre sono lì, accompagnato da Rosario Canino, direttore sanitario dell’Ospedale Maggiore di Cremona, portano un paziente nuovo.

«Fino a poco fa era in reparto, insieme ad altri dell’infettivologia, ricoverati perché risultati positivi e sottoposti a terapia con antiretrovirali, gli stessi usati nella cura dell’Hiv, con la speranza che facciano effetto», mi racconta Carla Maestrini da dietro la mascherina e avvolta nel sovracamice. È lei che coordina la terapia intensiva qui. È una donna dal sangue freddo, ma dalla straordinaria umanità.

«Il paziente – continua – ha avuto una crisi respiratoria legata alla polmonite e al virus. È stato necessario intervenire intubandolo ed è per questo che è stato portato d’urgenza qui. Con il suo arrivo siamo al completo, se non fosse che un altro paziente lo stiamo trasferendo a Varese, così liberiamo un altro posto. In questo ospedale, non lontano dalla zona rossa, letti liberi, in intensiva, non ne restano mai».

Terapia intensiva

Il nuovo arrivato contraddice quello che fino a questo momento ci hanno detto, ovvero che il maledetto Covid-19 colpisca solo, o per lo più, persone anziane over 70 e con quadri clinici già compromessi. Invece il suo fisico è scolpito, solcato da tatuaggi, un Marcantonio ora totalmente inerme nelle mani di medici e infermieri che lo devono stabilizzare.

Non è il solo che vedrò in questo viaggio che per la prima volta dà una forma, una concretezza, una plasticità al virus, finora ridotto al dibattito da cortile del “poco più o poco meno di un’influenza”. Nella stanza centrale medici e infermieri sono piegati sul corpo di un uomo più anziano, intubato e sedato anche lui. Mi colpisce il contrasto: quei corpi inermi, che respirano grazie all’aiuto artificiale e che in alcuni casi sembrano addormentati, quasi avvolti in una bolla tutta loro che è anche la loro garanzia per rimanere in vita, contrastano con l’atmosfera concitata, frenetica, di passaggi medici e manovre infermieristiche che c’è attorno a loro. Ci fanno capire quanto siamo fragili, quanto da un momento all’altro tutto possa cambiare, da quando Covid-19 è entrato nelle nostre vite e ha cambiato la percezione degli spazi, del tempo, dei momenti, degli affetti.
Più avanti ci sono tre pazienti in posizione prona.

Reparto terapia intensiva

«Facilita la respirazione delle zone polmonari posteriori e dà un maggior sollievo al malato», continua Carla Maestrini.
Eppure a me impressionano quasi di più quei corpi rispetto a quelli di chi invece è nella tradizionale posizione supina. Anche quando con delicatezza gli infermieri girano loro la testa, prima da un lato e poi dall’altro. E allora capisci quanto quelle vite siano appese non solo al loro destino, ma anche all’incredibile sforzo di chi le deve riportare laddove devono stare, tra di noi, alle loro occupazioni, con i loro affetti.

Ciò che era normale prima del Covid-19 non lo è più ora, dal giorno 14 quando il paziente uno si è ammalato ed è cambiato tutto. Anche per noi. In queste ultime due settimane ho assistito a dibattiti surreali, a semplificazioni che dipingono bene il clima di schizofrenia che ha preso non solo tutti noi, ma anche parte della comunità medica e scientifica, passata in breve tempo da «è poco più di un’influenza» a «siamo alla pandemia».

Sono bastate due settimane scarse per capire che no, non si tratta di poco più di un’influenza. E allora mi sono detto che, se ancora non si fosse convinti di questa cosa, occorresse che le persone vedessero con i loro occhi l’aspetto, il volto, la terribile pericolosità del virus. L’unica cosa che potevo fare era documentarlo con il mezzo che uso per farlo: la telecamera. E Piazzapulita me lo ha consentito, credendo, come me, che fosse giusto vedere per raccontare e aprire gli occhi a chi ancora non fosse convinto della estrema gravità del momento che stiamo vivendo.

Medici in terapia intensiva

Sapevo che quella scelta mi avrebbe esposto a critiche. Ma mi sono convinto ad accettarle tutte pur di raccontare cosa sta succedendo. Non credo a un giornalismo che debba rassicurare. Per questo scopo ci sono già molte agenzie sociali, dalla scuola, alla famiglia, agli amici, ai medici, qualora lo ritengano.

Al giornalismo è affidato invece un compito, se vogliamo, più alto e difficile ancora. Assumersi l’onere di vedere per raccontare. Anche se fa male ciò che si vede. Anche se è duro ciò che si racconta.

Perché mai non avremmo dovuto mostrare un reparto di terapia intensiva che ridona, con tutta la forza e la potenza delle immagini, la misura di cosa possa davvero essere Covid-19?

Terapia intensiva Cremona

Perché non dirlo, anche con la durezza delle immagini, che questa tutto è tranne che poco più di un’influenza? E perché non pensare che questo possa avere anche un fine pedagogico, spingendo molti italiani che ancora non hanno capito cosa sta succedendo, a cambiare il loro stile di vita e a seguire le norme dettate dai protocolli del governo per contenere il contagio? Infine, perché non concentrarsi su un problema concreto, che ci riguarda tutti, ovvero la saturazione delle nostre terapie intensive se il virus, come sta dimostrando, moltiplica i contagiati in misura così drastica? Perché questo non è un punto di secondaria importanza. Se il contagio si propaga a questa velocità anche i numeri di coloro che finiranno in terapia intensiva aumenteranno in proporzione. Mentre sto scrCivendo il bollettino del contagio è questo: 5.061 malati, con un incremento di 1.145 persone in un solo giorno, 233 morti, 36 in più di ieri (venerdì 6 marzo).

Il punto non è che i guariti sono 589, 66 in più rispetto sempre a ieri. Perché avere una situazione mondiale con un incremento così alto di casi che degenerano in polmoniti interstiziali e che forse necessiteranno di terapia intensiva rischia di mandare al collasso il sistema sanitario, non solo italiano. Quando i malati in intensiva saranno più dei letti disponibili sarà la fine. Anzi, per usare un termine impiegato dal coordinamento delle terapie intensive della Lombardia in una lettera indirizzata al Governo, saremo di fronte a una «calamità sanitaria».

Perché il rischio è proprio questo: quando il letto libero sarà uno solo e i malati due allora si dovrà scegliere a chi dare la precedenza, in una drammatica selezione che dovrà dire chi merita una chance in più e chi può attendere. Sempre che il destino non arrivi prima a sciogliere ogni dubbio.