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Coronavirus, fuga da Milano: io non sono partita, ma non condannate chi lo ha fatto

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"Ho scelto di rimanere a Milano, ma non me la sento di erigermi su un piedistallo e puntare il dito contro chi è andato via". La testimonianza di un'insegnante fuorisede.

Detesto il momento in cui arrivo in classe e mi tocca fare il solito predicozzo moralistico. Magari stavolta avranno copiato da Wikipedia, non avranno rispettato i termini di consegna oppure si saranno comportati in modo ingiusto con i loro compagni. Eppure, profondo respiro mentre varco la soglia, e giù con l’importanza dell’autorialità, con il mondo lì fuori che non aspetta noi, con “la nostra libertà finisce quando inizia quella degli altri”.

È il mio dovere, sono una docente, giovane e comprensiva, ma su certe questioni non si può proprio scendere a compromessi. Noi dobbiamo formare dei cittadini. Adesso, però, non posso vestire i panni della docente. Non so nulla sul Covid-19 e mi attengo a quello che la comunità scientifica e lo Stato mi impongono di fare. Non me la sento di fare pistolotti moralistici a nessuno.

La fuga da Milano nella notte di sabato 7 marzo

Sabato sera il tempo sembrava scorrere lentissimo e mai avrei creduto di vivere una situazione del genere a Milano, la città europea e superconnessa dove ho deciso di vivere. Ho avuto paura e pensato di fare la valigia e andare via. Ho pensato anche a tutta la leggerezza con cui, spiegando della peste del Trecento, solitamente parlo di epidemie, carestie e calo demografico come fenomeni ovviamente connessi. Ho scritto ai miei, dicendo loro che avevo paura, e pianto al telefono con le mie sorelle. No, non sono una cittadina modello.

Non sono rimasta a Milano perché le sono riconoscente, perché ho in mente solo il bene della collettività ed è la luce che illumina la mia via. Sono rimasta a Milano perché ho paura per i miei cari, per la mia città e per la comunità, ma anche perché a Milano c’è ormai casa mia, i miei libri e il mio lavoro, perché voglio continuare a inviare le audiolezioni ai miei ragazzi per sentirmi viva, perché non voglio fare la profuga per chissà quanto, perché avevo paura di prendere un treno o un aereo andando a casa tanto quanto di contrarre il virus a Milano, perché non voglio essere stigmatizzata, proprio lì, nel mio Sud.

Il ritorno al Sud e l’impatto sulla comunità

Credo che chi sia partito sia da condannare. La morale e l’etica ci impongono di rimanere qui, di evitare il contagio, di essere maturi e prenderci le nostre responsabilità, anche lontano dai nostri cari. Sarò un’irresponsabile, ma allo stesso tempo non me la sento di erigermi su un piedistallo e puntare il dito contro chi è andato via. Forse il mio è solo il frutto ingenuo della non piena competenza in campo scientifico, virologico e sanitario. Tuttavia, quella paura non l’ho ancora lavata via e non me la sento, umanamente, di presentarmi come modello di comportamento civico e gettare fango, mediatico soprattutto, contro chi è scappato. Ho terrore dell’impatto che questo esodo possa avere, anche sui miei cari e sulla comunità che io in persona ho voluto tutelare. Spero, tuttavia, che chi sia tornato sia coscienzioso e segua le indicazioni della quarantena volontaria.

Sì, hanno sbagliato, ma non riesco a condannarli a pieno. L’empatia non giustifica tutto, ci sono comportamenti giusti e comportamenti sbagliati, ma io non mi sento migliore di nessuno.