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Coronavirus in Italia: #iorestoincasa, ma chi una una casa non ce l'ha?

senzatetto morto tortona

Nel paese vivono, ai margini di quella stessa società che oggi trova nel tetto domestico l’ultima trincea contro il virus, oltre 50mila senza tetto, persone cioè che a casa ci vorrebbero stare, ma che una casa non ce l’hanno.

Un vecchio adagio dell’esercito recita che un plotone è efficiente quando marcia alla velocità del suo uomo più lento e quando il suo uomo più lento è comunque più veloce del più veloce dei nemici, un’utopia smargiassa la cui difficilissima realizzazione sta trovando polpa in questi giorni bui, in cui l’Italia intera si è idealmente irregimentata per far fronte alla minaccia Covid 19.

È presto spiegata: nel paese vivono, ai margini di quella stessa società che oggi trova nel tetto domestico l’ultima trincea contro il virus, oltre 50mila senza tetto, persone cioè che a casa ci vorrebbero stare, ma che una casa non ce l’hanno. Non sono tutti uguali, nella misura in cui ci sono diversi modi di non avere una casa dietro le cui finestre arroccarsi in attesa che passi la buriana: da chi una casa proprio non ce l’ha e dorme sotto i ponti o in stazione a chi vive in regime di insicurezza abitativa e chiama casa una baracca di lamiera che lascia passare i procioni, altro che le particole della nuova Sars.

E tutto questo si porta a traino altre croci che, sotto la greve campana dell’epidemia, scandiscono i rintocchi dell’allarme sociale: dato che vivere non è solo avere un parapioggia e un materasso, queste persone mangiano nelle mense sociali ed hanno una quotidianità scandita dalla deambulazione urbana. Camminano perché non hanno altro da fare, perché non hanno Netflix, i like a Commenti Memorabili, la moglie in vena di streap, il fidanzatino della figlia travestito da platano e infoiato fuori dal giardino di casa o il vecchio romanzo mai scritto da tirare fuori dal cassetto impolverato.

Sono vulnerabili e rappresentano non solo l’anello debole nel sistema di profilassi generale, ma anche, anzi, ancor più, l’immagine che scacciamo via dagli occhi quando alziamo il riscaldamento e ci accucciamo in divano ad aspettare il 3 aprile con un occhio ai bollettini medici.

Dietro queste persone c’è un piccolo ma agguerrito esercito di eroi, che li cura, li assiste, li informa con tutte le difficoltà figlie del dover interagire con gente che, per battage esistenziale, ha l’asticella del rischio e della sofferenza messa più in alto dei cimenti di Bubka, che guarda alla mascherina o all’amuchina come noi guarderemmo al tartufo di Alba.

Davanti a queste persone ma dietro finestre coinbentate ci siamo noi, noi a casa, noi al calduccio, noi che nella lotteria del contagio e della morte abbiamo la mano migliore da calare sul tavolo, noi miopi perché forse il momento lo richiede ma che forse, dico forse, eravamo mezze talpe già da prima dell’emergenza. Noi che ciechi proprio non possiamo permetterci di esserlo, perché alla fine, anche solo a buttarci un pensiero a quella gente lì, è tutto un problema di marciare assieme, come quel plotone: alla velocità del più lento di noi.

Così alla fine della guerra, quel Tricolore che oggi intasa le nostre pagine social diventerà coperta che non si sarà limitata a tenere al calduccio la testa e il petto, ma avrà protetto anche i piedi.