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Coronavirus: ora migranti siamo tutti, chi odieremo di più?

Migranti coronavirus

Ho sempre raccontato nei miei viaggi da cronista quelli che vengono respinti, ma non avevo mai sentito un agente di polizia gridarmi: "Sei italiana, nessun italiano mette piede qui".

In questi anni in prima linea a raccontare le crisi umanitarie del nostro tempo non mi era mai capitato di essere “respinta”. Non perché avessi un visto sbagliato o un passaporto scaduto, non perché avessi fatto un errore di prenotazione, ma “respinta” in quanto italiana. Per la prima volta, possedevo il passaporto sbagliato.

Ho sempre raccontato nei miei viaggi da cronista quelli che vengono respinti, quelli che non possono salvarsi, quelli che chiedono le frontiere aperte. Ho raccontato chi scappa, chi scende da una nave in mezzo al mare, chi sta al confine, chi è nel limbo di un campo profughi e non può andarsene. Non avevo mai raccontato me stessa. Non avevo mai sentito un agente di polizia gridarmi: “Sei italiana, nessun italiano mette piede qui”.

Eppure è successo, in questo tempo che ci pare sospeso, in questo incubo che è il maledetto nemico invisibile che ci terrorizza e ora ci limita anche la libertà. La mia generazione è sempre stata abituata alla libertà, non ha mai dovuto conquistarsela, non ha dovuto soffrire per ottenerla. Per questo forse mi è sembrato cosi innaturale, cosi irrituale.

Domenica scorsa sono partita per Istanbul per raccontare, per Piazzapulita, la grave crisi migratoria al confine tra Turchia e Grecia. Non è stato sufficiente uno scalo, né arrivare fino alla frontiera via terra. In nessun modo era consentito ed è consentito agli italiani raccontare quello che sta succedendo. Per una giornalista abituata a raccontare è una violenza non indifferente. Il motivo naturalmente è il Coronavirus ed è un motivo più che legittimo che però non può non portarci ad una riflessione più profonda, non può non ribaltare la narrazione del nostro tempo.

Il mio viaggio si è concluso a Lesbo dove ho conosciuto Amram, una donna afgana con due figli di due e cinque anni. Vagavano sperduti nella speranza di poter prendere una nave che li portasse ad Atene. I piccoli infreddoliti e affamati, la polizia che caricava e non li faceva nemmeno sedere sulle panchine. I pianti, le lacrime della donna e infine la rassegnazione. Obbligati a risalire su un pullman che li avrebbe portati nuovamente nel campo profughi di Moria, dove 12 mila persone vivono in condizioni disumane.

Ho preso il bimbo più piccolo e l’ho tenuto in braccio su quel pullman carico di essere umani. Scottava, aveva la febbre alta. Nonostante questi rischi quella donna non perdeva la speranza, voleva scappare da quella prigione, andarsene, provare ad avere una vita diversa. Non potrà farlo, non le è consentito. Da cinque anni i suoi figli dormono su una lastra di legno in mezzo alla spazzatura di un campo profughi e la loro infanzia è perduta per sempre. Amram non può uscire da Lesbo.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente ed esasperante linguaggio dell’odio, a una politica senza bussola dove chi gridava di più vinceva e chi gridava dicendo le crudeltà più atroci saliva sul podio; abbiamo visto la sinistra rincorrere la destra e la destra diventare sempre più becera, nazionalista, egoista. I consensi salivano ed era sempre più irresistibile la ricerca del nemico perfetto, il nemico numero uno: il migrante, il fuggitivo, il naufrago, l’ultimo degli ultimi che ruba ai penultimi.

Nessuno ha pensato che potesse essere lungimirante investire sulla solidarietà, sulla razionalità, sull’umanità. E poi, un ciclone ci ha travolto.

Siamo di colpo diventati noi gli untori, noi i difettati, noi gli infetti, i respingenti. Ora di colpo se ce ne volessimo andare, non potremmo farlo. Scalpitiamo dai divani di casa nostra, dalle nostre case piene di comodità e tv Led ultimo modello che vorremmo scaraventare a terra. Dobbiamo solo stare sul divano di casa, ma ci sembra l’inferno, ci sembra una prigione.

Non ci resta che custodire come popolo una lezione importante per il futuro. Chissà se sentiremo ancora urlare nelle piazze “prendeteveli a casa vostra”, chissà se useremo ancora la parola “taxi” per definire chi ha sempre scelto di stare dalla parte di chi cammina, scappa, cerca qualcosa di meglio.

Migranti siamo tutti, ora chi odieremo di più?