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Coronavirus, allarme delle cassiere: "Turni troppo lunghi, abbiamo paura"

Coronavirus cassiere

Nonostante l'allarme Coronavirus, per garantire l'approvvigionamento dei beni di prima necessità, i supermercati sono aperti: le cassiere hanno paura.

C’è una schiera silenziosa di eroi e combattenti che lotta in prima linea per contrastare il Covid-19. Hanno impressionato, commosso, sensibilizzato l’opinione pubblica le immagini di medici e infermieri stremati a causa di turni massacranti. Loro in casa non ci possono stare. Al dolore fisico si aggiunge la sofferenza, la mancanza della propria famiglia. Ma l’emergenza Coronavirus blocca al lavoro, con turni serratissimi, anche le cassiere, che ora hanno paura.

Coronavirus, l’allarme delle cassiere

Lo slogan è sempre lo stesso: “Restate a casa”. Sono molti gli italiani che devono migliorare i propri comportamenti, cambiare notevolmente il proprio stile di vita e prestare maggior attenzione alle più piccole e semplici accortezze. Molti anche gli italiani che a casa non ci possono stare.

Il governo ha invitato i datori di lavoro a favorire la modalità smart working, ma in tanti ne sono impossibilitati. Per tutti gli altri resta un obbligo: restare in casa. È permesso uscire solo per acquistare beni di prima necessità. E i cassieri lo sanno bene. Dopo l’assalto a tarda sera, gli italiani sono stati avvertiti: i supermercati resteranno aperti. Ora i clienti vengono fatti entrare a turni, i gel disinfettanti per le mani sono sempre presenti, guanti e mascherina sono caldamente consigliati. Ma le cassiere iniziano ad avere paura.

Tra di loro c’è chi lamenta: “Così non ci sentiamo tutelati, dobbiamo ridurre l’orario di apertura. Continuano a ricordare ai clienti che bisogna rispettare il metro di distanza, ma centinaia di sconosciuti sono ancora troppo disattenti: camminano vicini, troppo vicini, e loro dietro le casse sono immobili, impossibilitati a difendersi da possibili attacchi del virus.

Le testimonianze

Barbara Suriano ha 40 anni e lavora da 17 anni all’Ipercoop Casilino a Roma, con un contratto part-time. È anche la rappresentante sindacale aziendale iscritta alla Filcams-Cgil. Ogni sera, finito il suo turno, c’è un dubbio che la tartassa: “L’avrò preso? Domani mi sveglierò con la febbre?”.

Dopo il decreto di Conte, che rendeva “zona arancione” l’intera penisola, Barbara ha raccontato che per tre giorni lei i suoi colleghi sono stati senza mascherine perché l’azienda non le forniva. Quindi ha spiegato: “Ci siamo arrangiati con quelle che usano gli addetti al forno e ai laboratori. Poi mercoledì 11 marzo sono arrivate, ma le hanno centellinate. Infatti, la maggior parte di noi è stata costretta a usare la stessa per 4-5 giorni, di fatto rendendola inefficace. Poi la sanificazione dei locali non l’hanno fatta: gli addetti alle pulizie, poveracci, fanno quello che possono, ma il team non è stato rafforzato”.

Oltre alla cassa, la signora Suriano si occupa dell’accoglienza dei clienti. Ogni giorno, per 830 euro al mese (la sua paga base escluse le domeniche), va incontro a un potenziale pericolo. Per i full time sale a 1.100 euro. “Ma perché non riducono l’orario di apertura?”, è il suo appello comprensibilmente stizzito. “Abbiamo proposto di aprire dalle 10 alle 18, per ridurre il tempo di esposizione al rischio contagio, e di fare due turni di rifornimento a ipermercato chiuso. Non abbiamo avuto risposta. E perché dobbiamo rimanere aperti anche la domenica?”.

La paura di Barbara è la stessa di Federica, cassiera della stessa Ipercoop. Dopo turni lunghi, a volte interminabili, non desidera altro che riabbracciare il suo bambino. Ma a la Repubblica ha precisato: “Appena entro in casa mi tolgo le scarpe, poi mi spoglio nel corridoio, metto i vestiti a lavare e mi butto sotto la doccia, mi lavo le mani anche con l’igienizzante. Solo allora abbraccio il mio piccolo Gabriele. Ma non sono più gli abbracci prima, perché continuo a pensare: e se la mascherina che uso non ha funzionato? E se sono infetta? È una malattia che non si vede, è un incubo.

Lei e le colleghe sono comprensibilmente preoccupate:Batto 150 scontrini al giorno per otto ore di fila, ho una mascherina di stoffa che ci ha fatto un’amica, perché quelle professionali con la valvola non si trovavano più. Centinaia di persone passano a pochi centimetri di distanza perché da quando c’è l’epidemia vendiamo il triplo, comprano come se ci fosse la guerra. Chi lo sa chi è malato e chi no? E il pensiero di portare a casa il virus, mi fa stare male.

Come medici e infermieri, questi dipendenti sono dei piccoli, grandi eroi, i quali quotidianamente aprono e gestiscono i loro negozi, dove la gente non manca mai. Eppure loro non si sentono eroi: “Sono solo una persona responsabile. So di fornire un servizio essenziale per tutti i cittadini, quindi lo faccio. Però ci sentiamo esposti al contagio, ha detto Federica. Il clima è freddo e visibilmente teso: “Anche se siamo con gli altri colleghi, in realtà siamo soli: non parliamo più tra di noi, non scherziamo, non ci sono più i clienti affezionati che ti portano una caramella o ti accarezzano con una parola gentile. Ora, al supermercato, c’è solo silenzio. E paura”, ha aggiunto sconfortata la cassiera romana.