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Coronavirus Bergamo, dolore dei pazienti: "Dica a mia moglie che la amo"

Coronavirus Bergamo

Resta alta la paura del Coronavirus a Bergamo: il chirurgo dell'ospedale di Treviglio racconta cosa succede in corsia e il dolore dei suoi pazienti.

A Bergamo non c’è più posto. In terapia intensiva i letti sono esauriti. Gli ospedali sono al collasso, il personale sanitario è stremato. Al dolore fisico, tra mascherine che soffocano, guanti che provocano abrasioni, tute che fanno sudare, protezioni che lasciano lividi, si aggiunge quell’implacabile dolore interiore. Non importa l’età, la malattia, il quadro clinico più o meno compresso: alla morte non ci si abituerà mai. L’emergenza Coronavirus a Bergamo resta altissima. La città, così affascinante nelle sue vie del centro, così romantica e suggestiva nella sua parte alta, è irriconoscibile, spettrale. A raccontare cosa succede tra le corsie è il chirurgo dell’ospedale di Treviglio.

Una volta terminato il turno di lavoro, si mantiene la distanza anche dalla propria famiglia. Da un marito dal quale si vorrebbe ricevere conforto e protezione, dai figli che si vorrebbe stritolare di abbracci. Ma è tanta la paura che il virus ti resti addosso. È impossibile distrarsi, svagarsi, “staccare dal lavoro” dopo una giornata interminabile, faticosa, umanamente devastante. Le immagini dei pazienti intubati restano fisse negli occhi. I pazienti muoiono con gli stessi vestiti che avevano indosso quando sono stati ricoverati: completamente soli. Lo strazio di chi sta male resta impresso e dà tormento.

Coronavirus a Bergamo, il racconto di una dottoressa

Il chirurgo dell’ospedale di Treviglio è moglie e madre. Non vuole definirsi “eroe”. La sua vita, nei giorni di emergenza sanitaria, è fortemente cambiata. Ha tagliato i suoi lunghi capelli biondi: la femminilità al momento passa in secondo piano. Le vere priorità sono altre. “Quando sto per arrivare a casa avviso mio marito perché tenga i bambini lontani. Vado in bagno, butto tutto da lavare, sto sotto la doccia per 40 minuti, mi sfrego con acqua e sapone. Poi mi infilo la mascherina e, comunque, tengo i miei figli a distanza. Ho tagliato i capelli corti per evitare il più possibile di portami a casa qualcosa, ha raccontato.

Negli ospedali, ormai al collasso, i medici vivono momenti drammatici. La dottoressa ama il suo lavoro e continua a proteggere la sua famiglia: “Ma noi medici non dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare quello che facciamo. Qui ci sono delle responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Valle Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione”, ha dichiarato con fermezza facendo eco a quanto precedentemente detto da Giuseppe Remuzzi.

Alla paura unisce la tanta rabbia:Stiamo in piedi con la rabbia. Non abbiamo gli strumenti per intervenire su tutti, oltre che le protezioni”. Tra le corsie si susseguono malati gravi: “Il paziente va in arresto respiratorio, gli pratichi il massaggio cardiaco perché no, tu medico non riesci a lasciarlo morire, ti guarda. E quando lo devi intubare? Il tubo ce l’hai ma non hai il ventilatore. Quindi? Età e comorbidità sono criteri di esclusione dalle manovre. Adesso dobbiamo intubare i quarantenni. Se domani arrivo io con il diabete, per fare un esempio, vengo dopo di lui. Si discute tanto di eutanasia, ma queste sono persone che, se avessimo i presidi, potrebbero farcela”. Quando un tampone, finalmente, dà esito negativo non nasconde la sua contentezza. Tuttavia, ha precisato: “Sono felice a metà”.

Il dolore dei pazienti

Per il paziente non è una sconosciuta qualunque: alla dottoressa si deve la vita. È lei l’unico ponte con il mondo esterno mentre sul letto di ospedale si resta completamente soli. “Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi”, ha commentato. Le si spezza il cuore sentendo messaggi come: “Dica a mia moglie che la amo” o “Mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere”. E ancora: “Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori”.

Purtroppo, le brutte notizie sono all’ordine dei giorni. Infatti, intervistata dal Corriere della Sera, la dottoressa ha raccontato:Ai parenti diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante”. Anche la tenuta psicologica dei dottori è appesa a un filo. Perché è vero che sono degli combattenti che lottano senza sosta, ma è anche vero che sono degli esseri umani. “Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari”, ha commentato la dottoressa, 50 anni.

Sugli altri medici ha fatto sapere: “Un collega con la moglie incinta si è trasferito con un altro in un B&B.Decine e decine si stanno ammalando. Vengono con la febbre ma non possiamo fare diagnosi, perché siamo troppo pochi, se non quando i sintomi sono tali che non si può più stare qui”. Quindi ha aggiunto: “Ci sono pazienti in bagno, per isolarli. Oppure che restano in ambulanza, li visitiamo lì”.

La situazione a Bergamo

Niente flash mob, niente canti sui balconi. La paura del Coronavirus a Bergamo è tanta. La gente non esce di casa, ma la morte aleggia indisturbata e continua a mietere vittime. Il picco dell’epidemia, fanno sapere medici e scienziati, non è ancora stato raggiunto. Ma nella Bergamasca, con 385 vittime in una settimana, l’apice del dolore è già stato toccato. Le vittime sono tante e per loro non c’è spazio. Oltre 10 pagine di necrologi sull’Eco di Bergamo confermano la gravità del problema. Il sindaco Giorgio Gori lo ha detto chiaramente: “Un forno crematorio non basta”. Di morte non se ne vuole più sentir parlare.

Un male oscuro e senza pietà; invisibile, improvviso. Perché se è vero che quando si muore si è soli, con il Covid-19 lo si è ancora di più. Accanto non si ha nessuno: amori e affetti di una vita svaniti in un istante. Nessun ricordo, nessuna cerimonia. I medici hanno avvertito: può colpire chiunque, indipendentemente dall’età anagrafica. Alla luce della grave emergenza Coronavirus, la gente, soprattutto a Bergamo, spera in un miglioramento della situazione. Per farlo, serve l’impegno di tutti. A chi sta bene viene chiesto solo un piccolo sforzo: stare a casa.