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Coronavirus, la battaglia del paziente "fantasma" tre settimane in terapia intensiva

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La storia di Giovanni, il paziente "fantasma", il primo a essere finito in rianimazione per tre settimane, affetto da Coronavirus.

Giovanni è un uomo fortunato, sa di esserlo: una vita piena di affetti, una moglie, tre figlie, gli anziani genitori, una professione ben avviata; una vita come quella di tanti, normale. Una merce rara di questi tempi la normalità. Ma Giovanni non sapeva di essere più forte di quanto potesse immaginare e, scoprirlo in uno dei momenti più tragici della sua vita, non lo ha sorpreso perché lui è credente.

Giovanni è il paziente “fantasma” di Segrate, il primo a essere finito in rianimazione per tre settimane, affetto da Coronavirus. Il paziente di cui nessuno sapeva dare notizia, mentre il suo medico continuava a scrivere lettere aperte e a denunciare che il virus, ormai, era tra noi.

La macchina della burocrazia è normalmente indecifrabile, immaginate in questi giorni che di normale non c’è nulla, neanche il clima o l’aria che respiriamo, insolitamente più profumata: sarà l’assenza di smog.

Festeggiare la festa del papà per Giovanni quest’anno ha avuto un significato diverso, un sapore che non potrà mai più scordare. Giovanni è tornato in famiglia proprio questo 19 marzo, guarito, nell’animo e nel corpo, anche se la sua voce sembra quella di un ex fumatore, un po’ affaticata ma felice di poter raccontare al telefono la sua storia, quella del primo ammalato di Segrate, tra i primi in Italia a essere stato curato con una terapia sperimentale e la consapevolezza di essere un “miracolato”, perché ammalarsi oggi sa bene che non sarebbe stata la stessa cosa.

Ha vissuto direttamente quello che tutti noi vediamo in tv, dai notiziari. Quattro settimane fa, quando ancora il Coronavirus era solo una notizia dalla lontana Cina e le immagini di una città di oltre 11 milioni di abitanti, Wuhan – la Lombardia ne conta 10,800 mila – sembravano quelle di un brutto film di fantascienza, Giovanni non pensò che le poche linee di febbre e la sensazione di ossa rotte potessero essere qualcosa di diverso dalla normale influenza, che proprio in quei giorni aveva raggiunto l’apice stagionale.

Giovanni aveva sentito le notizie dei primi casi in Italia, in alcune provincie lombarde e venete, ma erano luoghi abbastanza lontani dalla sua vita. Dopo quattro giorni a letto, seguito a distanza dal suo medico, e la terapia come per una normale influenza, il medico curante, il dottor Mazzoni, intuisce che qualcosa non andava.

Gli antipiretici non riuscivano ad abbassare la temperatura e il tentativo di somministrazione di un antibiotico fece precipitare la situazione. Il 27 febbraio, di buon’ora, il dottor Mazzoni si reca a casa di Giovanni. Il quadro non era chiaro, la febbre persistente ma la quasi assenza di rantoli o altri rumori sospetti dall’auscultazione dei polmoni complicavano la diagnosi.

Inoltre Giovanni non ha ancora difficoltà respiratorie (leggi qui i sintomi del Coronavirus), ma il quadro generale era anomalo per un uomo di 55 anni, sportivo e senza nessuna patologia pregressa.

Il dottor Mazzoni non può non tener conto di quanto sta accadendo in tutta la provincia milanese. Alcuni casi di Coronavirus erano stati accertati nei comuni intorno a Segrate e il quadro generale del paziente, abbastanza compromesso da una persistente febbre, non era normale. Dopo giorni di antipiretici e tutta la profilassi antinfluenzale, il dottor Mazzoni cambia strategia e decide di seguire le indicazioni del ministero della Salute e della Protezione Civile per i casi sospetti.

Il 28 febbraio, allertato il 112, un’ambulanza con un medico, dopo una veloce anamnesi decide di trasferire Giovanni al San Raffaele. Nel frattempo i primi segni di affaticamento respiratori non lasciano ben sperare e l’arrivo al Pronto Soccorso, stipato da decine di barelle, di pazienti in attesa di essere visitati, cominciano a far capire all’ingegnere siciliano che probabilmente non basteranno la forza d’animo, la sua positività e il buon umore a cambiare le carte del destino.

L’attesa si rivela lunga, ben 24 ore di snervante dubbio macerano Giovanni, incollato alla barella del pronto soccorso. Sabato sera, quando arriva il risultato del tampone, Giovanni apprende di essere positivo. È quasi una liberazione, almeno sa cosa dovrà combattere.

Sa che la prova che sta per attraversare richiederà coraggio e determinazione ma, soprattutto, una grande dose di forza d’animo da infondere ai suoi cari, alla moglie che non vede da alcuni giorni ma che riesce a sentire al cellulare, agli anziani genitori che dalla Sicilia sentono le angoscianti notizie dei telegiornali e vorrebbero correre in soccorso del figlio. Giovanni è positivo, non solo al Coronavirus ma d’animo, sa che questa storia finirà tardi o presto e si prepara alla resistenza.

Giovanni viene trasferito al San Raffaele Turro, nel reparto malattie infettive. Le condizioni attorno a lui non sono d’aiuto, rinchiuso in isolamento, nel reparto di terapia intensiva: “nessuno poteva entrare senza prima passare per la stanza a vetri dove indossare tutte le protezioni: guanti, mascherina, calzari, camice mono uso”. Condivide la stanza con un pensionato, un settantenne di Castiglion d’Adda, uno dei sopravvissuti del circolo anziani decimato dal virus. Giovanni deve aiutarlo a passare i momenti di sconforto, a pensare ad altro, a non piangere quando parla dei suo tanti amici che ha perso in una volta, tutti assieme, come vittime di un’esplosione.

Giovanni comincia a farsi una cultura sulle terapie adottate, su retro virali, sul protocollo “Spallanzani”, sui farmaci anti HIV, sulla clorochina. Combattere informati dà qualche vantaggio, avrà pensato Giovanni, ma se non è così almeno tiene la mente occupata e concentrata sull’obbiettivo: uscirne prima possibile.

Le giornate al reparto di terapia intensiva sono scandite dai frequentissimi prelievi di sangue, delle urine, della somministrazione dei farmaci, ma anche dei sorrisi di incoraggiamento di medici, infermieri e paramedici. “La tensione si sentiva, si vedeva spesso correre gli infermieri da qualche parte ma non ce l’hanno mai trasferita. Anche se avvertivo la loro stanchezza attraverso gli occhiali di protezione e non vedevo il loro sorriso, coperto dalle mascherine, il loro sguardo cercava di infonderci fiducia, serenità”.

E di fiducia e serenità deve averne avuto di bisogno tanta visto le notizie che arrivavano dallo schermo della televisione in camera. Oltre all’aggravarsi delle notizie che arrivano da tutta Italia, anche le condizioni di Giovanni si complicano: il sottile tubicino che porta l’ossigeno alle due narici non è più sufficiente, si deve passare alla maschera a ossigeno.

È passata una settimana, il calendario segna l’ingresso del mese di marzo, le giornate sono quelle di una primavera avanzata; Milano pian piano si ferma. Gli appelli a non uscire, evitare gli assembramenti, le passeggiate al parco, per molti italiani sono annunci privi di senso, come se l’emergenza Coronavirus riguardasse il mal capitato Giovanni e le ormai decine di migliaia di pazienti delle terapie intensive del nord d’Italia.

I giorni passano e la permanenza di Giovanni nel reparto infettivi iniziano ad assumere davvero il sapore di una stenua resistenza verso un nemico invisibile, subdolo. La dottoressa Silvia Nozza diventa il suo angelo custode. È li, in reparto da mattina a sera, e quando può passa per aggiornare Giovanni sui programmi, sulle intenzioni di cura, sul suo stato generale di salute.

Giovanni è fiducioso, sa di essere in buone mani, sente la cura e l’umana professionalità di chi lo circonda; non poteva stare in mani migliori, e continua a ripeterlo al telefono, all’anziano genitore che dalla Sicilia sente ogni giorni le notizie e le cifre della guerra al Coronavirus. Il dottor Mazzoni lo chiama tutte le sere, vuole sentire come sta, delle cure e di come sta progredendo. Gli racconta di essere diventato un caso di cronaca, “il paziente fantasma di Segrate” se la ridono, e promettono di raccontare un giorno questa storia.

C’è solo un tormento che spesso la notte viene a fargli compagnia: il pensiero di aver potuto contagiare la sua famiglia, la moglie e le figlie. Solo pensarlo gli procura agitazione.

A casa tutti bene, e questa è la notizia che Giovanni voleva sentire. Sono passate quasi quasi due settimane dall’inizio dell’incubo, ragionevolmente sufficienti per dire fuori pericolo di contagio per i suoi cari.

L’ottimismo di Giovanni sono un buon auto-medicamento ma non sufficiente a tirarlo fuori dal quel reparto prigione. Le indagini e le cure continuano. La richiesta di una TAC rischia di trasformarsi nell’ultimo ricordo per Giovanni. Durante il trasferimento in sedia a rotelle al reparto di radiologia, forse per un eccesso di cautela o per le stringenti norme di sicurezza imposte dalle condizioni, a Giovanni vengono fatte indossare due mascherine. Il respiro si fa corto, comincia a sudare freddo, sente che sta per perdere i sensi. Fa segno che sta per svenire. Gli infermieri corrono a prendere una barella, la bombola a ossigeno si sposta, in gola gli arriva un potente getto di gelido azoto. Ecco, è la fine.

Giovanni sa che sta vivendo gli ultimi istanti della sua vita. Non ha il tempo per rivedere la sua vita a ritroso, sviene prima. Non sa per quanto tempo ha perso i sensi ma è certo di sapere cosa l’ha rimesso in careggiata. “Una mano, come un’enorme ventosa, si è aggrappata al mio petto per sollevarlo e aiutarmi a riprendere a respirare” il racconto si ferma per un’istante. “Sono un credente e devoto di Sant’Agata”, la vergine e martire catanese, protettrice della citta etnea. “Non riesco altrimenti a spiegare cosa può avermi ridato aria ai polmoni”.

La battaglia all’infido nemico si fa sempre più dura, nuovi farmaci e nuovi protocolli si sostituiscono a quelli adottati fino al quel momento. La dottoressa Nozza gli comunica che lui e un altro paziente dello stesso reparto saranno i primi due casi di Coronavirus italiani trattati con un nuovo protocollo. Dalla Cina sono arrivate delle nuove indicazioni, un nuovo farmaco dagli effetti incoraggianti. Sorride quando sente al Tg5 la notizia che alcuni pazienti del San Raffaele saranno trattati un con un nuovo farmaco, “diventerò un caso clinico”.

La luce in fondo al tunnel si fa man mano sempre più intensa, intravvede l’uscita. Giovanni sa che ne sta per uscire, ma non può dirsi di sentirsi come prima. I suoi polmoni adesso portano i segni di un qualunque fumatore incallito. La sua testa non potrà dimenticare le notti insonni, la mancanza di respiro, il pianto del compagno di stanza. Giovanni si sente cambiato così come avverte che tutto sta per cambiare. Giovanni sa di aver vinto la sua battaglia ma è consapevole che c’è una guerra da vincere e avverte il peso dei giorni a venire.