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Coronavirus, le sanzioni non bastano: la nostra vita vale solo 4mila euro?

Coronavirus: sanzioni amministrative fino a 4mila euro

Con l'ultimo decreto il Governo ha di fatto depenalizzato chi viola le restrizione necessarie per combattere il Coronavirus, mantenendo soltanto la sanzione amministrativa.

Non c’è più la denuncia penale per chi esce di casa senza motivo. Con il quinto decreto varato da Conte in meno di due mesi la sanzione per chi viola le restrizioni al movimento imposte dal Coronavirus diventa solo amministrativa. Sebbene innalzata da 206 euro a una cifra variabile tra 500 e 3mila euro, aumentabile fino a un terzo se si è colti in flagrante a bordo di un veicolo (che non verrà sequestrato). Dunque, massimo 4mila euro: questo è il prezzo per violare norme di emergenza sanitaria ormai internazionali.

Tanto costa e vale il rispetto di disposizioni che possono fare la differenza tra la vita e la morte di una popolazione e di un territorio. A qualcuno sembra un inasprimento, perché la cifra può fare in effetti la differenza nel budget di molte famiglie, ma la versione precedente prevedeva, in linea teorica, anche l’arresto fino a tre mesi. E contemplava anche l’ipotesi, ancor più grave, di violazione dell’articolo 452: delitti colposi contro la salute pubblica, che estendeva l’arresto fino a tre anni se si andava in giro con i sintomi del Covid.

Converrete che rispetto a una “nota” sulla fedina penale (anche se oggi ha conseguenze pratiche solo nei concorsi pubblici), una multa equivalente a un’infrazione stradale è una sanzione qualitativamente e concettualmente molto differente: non si commette più un “reato”, ma un banale illecito conciliabile con un bonifico. E’ vero che la nuova versione minaccia pure da 1 a 5 anni di carcere, ma solo chi è in quarantena obbligatoria perché ha fatto un tampone Asl che certifichi con scientifica evidenza la positività al Coronavirus. E per essergli stato fatto un tampone – secondo quanto attualmente prevede lo pseudo protocollo del ministero della Salute – deve avere tosse, affanno, febbre alta, dolori articolari. Deve essere insomma più di là che di qua: condizioni-limite in cui anche chi vorrebbe non ce la farebbe fisicamente a mettere il naso fuori dalla porta.

Non è difficile, dunque, capire come si è arrivati a questa svalutazione di un comportamento sostanzialmente criminale.

Dall’11 al 23 marzo le forze dell’ordine hanno fermato – a caselli, stazioni, aeroporti e fermate dei mezzi pubblici – quasi 2 milioni e mezzo di persone: un dispendio incredibile di risorse di polizia, carabinieri ed esercito che potrebbe esser d’aiuto altrimenti nei luoghi del contagio.

Oltre 100mila i denunciati in neanche due settimane, di cui si è riuscito a verificare nell’immediato le false dichiarazioni, e lasciati comunque a piede libero. Quale giudice li manderebbe in galera in questo momento, magari senza tampone, nelle carceri iperaffollate e ribollenti di rabbia?

Era letteralmente impossibile perseguire una massa di potenziali indagati che, nonostante i divieti, cresce alla media di 10mila al giorno. Troppi. Di quanti, del restante 95% dei controllati, si sarebbe poi effettivamente verificato che non l’avesse fatta franca al posto di blocco?

Una mole di lavoro mai vista tutta insieme per procure e tribunali di tutta Italia che – già oberati da un arretrato cronico (la riforma al vaglio del governo prima dell’epidemia riguardava proprio i tempi della prescrizione) – sono chiusi dal 7 marzo e non riapriranno prima del 31 maggio. Una valanga di pratiche e procedimenti giudiziari inimmaginabile da smaltire, una volta tornati alla “normalità”. Come accertare, del resto, che l’asintomatico fermato mesi prima fosse un portatore sano o avesse il virus in incubazione?

Il premier si è di nuovo scontrato con l’impraticabilità di fatto delle sue disposizioni: a spingerlo a rivedere ancora il “Decretone” è stata la medesima consapevolezza del colabrodo rappresentato dalla nostra giustizia che ha spinto tanta gente a uscire, incurante degli appelli lanciati perfino da molti VIPO, da Piero Angelo a Piero Pelù.

Cittadini che hanno contravvenuto alle regole che gli altri stanno osservando a costo di enormi sacrifici, economici e psicologici, personali e dei propri cari, prolungando con la loro scellerata condotta l’agonia a casa del resto della comunità. Chi giocava a calcetto nell’anconetano, chi organizzava un festino nel salernitano, chi partecipava a un torneo di scopone al bar nel bolognese, chi a una battuta di pesca nel torinese.

Alcuni sono stranieri, che non hanno percepito la pericolosità dell’epidemia per la scarsa conoscenza della lingua italiana o perché provenienti da prove più estreme, come bombe e torture. Altri sono senza fissa dimora, che ancora passano le giornate nelle strade desolate delle periferie, per la difficoltà di trovargli un ricovero sicuro.

Molti altri ancora sono italiani, giovani e anziani, non necessariamente residenti in aree di degrado ed emarginazione del nostro paese o con scarso accesso ai mezzi di informazione, ma semplicemente egoisti e insensibili al quotidiano bollettino di guerra della Protezione civile, alla sorte propria e altrui, che vanno in giro facendosi scudo con le sfuggenti nozioni di “situazione di necessità” e di “beni essenziali”.

Possibile che d’ora in poi se la riescano a cavare così a buon mercato? Lo Stato ha valutato che in questo momento i soldi siano un deterrente maggiore per gli italiani, considerando che la stragrande maggioranza di loro è già ai “domiciliari”, e ha scelto quindi di passare all’incasso.