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Coronavirus, le mascherine prodotte non possono essere distribuite

Coronavirus mascherine prodotte distribuite

Il caso delle mascherine chirurgiche prodotte da aziende riconvertite per l'emergenza coronavirus ma che non possono essere distribuite.

Nel suo ultimo data room sul Corriere della Sera, Milena Gabanelli ha affrontato lo spinoso tema della mascherine per proteggersi dal coronavirus di cui molti ospedali hanno bisogno, ma che, malgrado queste siano state prodotte da alcune aziende (tra cui Calzedonia) che hanno convertito la loro produzione, ancora non possono essere distribuite. Il decreto del 17 marzo 2020 invitava le aziende italiane a modificare le proprie produzioni per realizzare materiale sanitario e, nel caso delle mascherine, imponeva il rigido criterio di biocompatibilità e di performace, ovvero un filtraggio fino al 98%. L’appello era stato accolto da molte realtà imprenditoriali che più che chiudere avevano preferito mettersi a disposizione della comunità.

Sono così partiti i test sui materiali e lo studio di un nuovo comparto produttivo per poter offrire un bene che fosse prima di tutto a norma e poi anche funzionale alla lotta all’emergenza. Al Politecnico di Milano, incaricato dalla Regione Lombardia di occuparsi delle analisi sulle mascherine chirurgiche, si sono presentati in 1700 e 600 prototipi sono stati sottoposti ai test. Di questi soltanto 10 possedevano i requisiti di sicurezza richiesti e alcune di queste realtà aziendali ha creduto nel progetto di riconversione, hanno investito e inviato l’autocertificazione all’Istituto superiore di sanità. Al momento, però, tutto è fermo. Sono ancora in attesa di conoscere se il protocollo seguito sia corretto o meno.

Coronavirus, le mascherine prodotte e non distribuite

Gli esempi di quanto detto per la Gabanelli sono molti: “Dalla Sapi di Reggio Emilia, ad altre 7 aziende accompagnate alla riconversione dal Tecnopolo di Mirandola; dalla Fater che fa pannolini e ha avviato una linea di produzione su richiesta della Protezione civile, alla Fippi, su pressione di Assolombarda. La Fippi è stata guidata dal Politecnico nella scelta del materiale giusto, ha superato i test di laboratorio, avviato la produzione di 900.000 mascherine chirurgiche al giorno due settimane fa. Oggi ne ha in stock 4 milioni. Ebbene queste aziende non possono ancora commercializzarle perché l’Istituto superiore di sanità, che per decreto deve rispondere entro 3 giorni, non lo ha ancora fatto. La procedura semplificata alla fine si arena ancora una volta nella confusione romana”.

Mancano i requisiti di sicurezza

A tutto questo si aggiunge poi la distribuzione avvenuta di mascherine non adatte ad uso medico. L’allarme era arrivato lo scorso 1 aprile dal presidente dell’Ordine dei medici stesso che, rivolgendosi ai presidenti degli Ordini dei medici nei capoluoghi di Regione, aveva scritto: “Vi comunico che il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19, Domenico Arcuri, mi ha appena informato che le mascherine che riportavano la dizione ffp2 equivalenti, inviate dalla Protezione civile in data odierna agli Ordini dei medici capoluoghi di Regione, non sono dispositivi autorizzati per l’uso sanitario dalla Protezione civile. Vi chiedo quindi di sospendere immediatamente la distribuzione e l’utilizzo di quanto ricevuto, informando nel contempo eventuali medici o strutture che ne fossero già in possesso”.

La diffusione di materiale non sicuro

In questo caso la confusione è stata creata sempre dal decreto del 17 marzo 2002 che autorizzava, in deroga alle norme vigenti, l’importazione in Italia di materiale privo di certificazione Ce. All’Agenzia delle dogane il potere di bloccarlo solo nel caso in cui non fosse chiaro il destinatario, e dunque niente analisi di conformità. Appare evidente che una volta entrata nel territorio italiano un partita non sicura di materiale medico è difficile rintracciarne la diffusione. Gli esami svolti dal Politecnico di Milano su alcuni prodotto acquistati dall’estero, quasi sempre dalla Cina, hanno confermato nella maggior parte dei casi di trovarsi di fronte a materiale non adatto per essere utilizzato a scopo medico.