> > Diario di un medico in prima linea contro il Coronavirus: 4° puntata

Diario di un medico in prima linea contro il Coronavirus: 4° puntata

Diario dal fronte del Coronavirus

Il mio primo giorno da medico volontario per l'emergenza Coronavirus in un Covid Center del Piemonte e quel sorriso strappato al mio primo paziente.

Da medico sono abituato ad adottare le misure necessarie per proteggere me stesso e miei pazienti. Il camice, i guanti in lattice, la mascherina. Ma il mio primo impatto, da medico volontario per l’emergenza Coronavirus, al Covid Center a cui sono stato destinato è proprio il rito della vestizione. Una vestizione obbligatoria e necessaria, a proteggere e proteggersi.

Più che indossare la tuta, sono io ad infilarmi all’interno di essa, che spessa e opprimente, diventa la mia seconda pelle per molte lunghissime ore. «Ti consiglio di fare prima la pipì – mi suggerisce un collega – perché poi non riuscirai più a farla». Le tute, infatti, non hanno aperture. E non si possono sprecare, perché sono poche: meglio cambiarla una sola volta al giorno.

Qui tutti gli specialisti si stanno occupando dei malati di Coronavirus. anche per questo il nostro arrivo è per loro un sollievo: molti non andavano a casa da giorni, tutti hanno dovuto lasciare le loro specialità e i loro pazienti.

La cosa più terribile del Coronavirus è che è una malattia che non sappiamo curare: hanno provato vari farmaci, c’è una parziale utilità di alcuni di essi nelle fasi precoci, come il Tocilizumab, che può dare un notevole miglioramento ma è molto costoso e quindi non a disposizione di tutti in questo momento.

Ancora più difficile da affrontare è che un paziente, una volta ricoverato, non vede più i suoi cari, almeno fino a quando non sarà guarito. Isolato, non vede più persone intorno a sé. Vede tutti come vede me, completamente ricoperti da una tuta bianca, due paia di guanti, visore, mascherina coprente, cappuccio e maschera facciale.

Anche noi medici smettiamo di essere persone per loro e diventiamo oggetti, robot. Comunicare con loro è difficile, sia con le parole (molti sono anziani e hanno problemi di udito), sia con i gesti, con i tocchi o con le espressioni del viso. E così diventano sofferenti non solo per la malattia, ma anche per l’isolamento assurdo.

Ancora più straziante per i familiari la consapevolezza che – se il paziente non dovesse farcela – non avranno modo di salutarlo un’ultima volta. Un morto di Covid viene, infatti, avvolto nel proprio lenzuolo imbevuto d’alcol, infilato in un sacco nero e trasportato via, come un pacco, peggio di un pacco. Il tutto davanti agli occhi terrorizzati degli altri pazienti.

Mi sento un monatto, uno di quelli raccontati da Manzoni. Come loro, combattiamo senza armi: ci affanniamo a curare un paziente che poi ci sfugge di mano. Scivola via senza che riusciamo ad trattenerlo in alcun modo. Non ero abituato a vedere così tanti decessi, nonostante tanti anni di lavoro in ospedale.

Il mio primo paziente l’ho soprannominato Carlin. Siamo arrivati praticamente insieme al Covid Center. Gli ho subito messo la maschera, per aiutarlo a respirare, e nel frattempo vedevo che piangeva, gli vedevamo scorrere le lacrime dentro quella maschera che gli copriva il volto.

Ho cercato di confortarlo, ma non posso neanche stare troppo a lungo accanto ai pazienti: ce ne sono troppi tutti hanno bisogno di attenzioni ma noi siamo troppo pochi. È convinto di non farcela e non so come fargli cambiare idea, come rassicurarlo. Per provare almeno a strappargli un sorriso gli ho detto che effettivamente era stato sfortunato: non solo era costretto in una maschera per riuscire a respirare, ma è perfino il primo a essere capitato nelle mani di un medico terrone.

Mi ha sorriso con gli occhi e, sicuramente, quel sorriso è la cosa più bella che son riuscito a fare nel mio primo giorno da medico volontario per l’emergenza Coronavirus.

Ogni giorno pubblico su Notizie.it il mio diario dal fronte del Coronavirus: leggilo qui.