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Silvia Romano, padre Albanese sulla conversione: "Non mi convince"

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Parlando del difficile contesto somalo, il missionario comboniano padre Giulio Albanese non si dice convinto della conversione di Silvia Romano.

Intervistato dal Corriere della Sera, il missionario comboniano padre Giulio Albanese esprime scetticismo in merito alla conversione all’islam di Silvia Romano, la volontaria milanese rientrata in Italia nella giornata del 10 maggio dopo 18 mesi trascorsi in Somalia come ostaggio delle milizie jihadiste di Al-Shabaab. Il sacerdote, giornalista e da anni impegnato nel continente africano, ha infatti spiegato che quello dell’estremismo islamico è un ambiente che può mettere a dura prova la salute mentale di qualunque vittima di rapimento.

Silvia Romano, il parere di padre Albanese

Sulle pagine del Corriere, il missionario cerca di inquadrare la vicenda di Silvia Romano nel difficile contesto dello jihadismo in Africa, dicendosi però non convinto della reale consapevolezza nella conversione della ragazza: “Bisogna capire che cos’è successo. L’Islam fanatico ti spinge a uno scambio: la tua conversione in cambio della tua vita. Ne ho conosciuti tanti, di ‘convertiti’. Ho scritto anche un libro sui bambini costretti a combattere, sul lavaggio del cervello che subiscono. Ho visto il sorriso di Silvia, all’aeroporto di Ciampino. Ma quel sorriso non mi dice nulla. Non mi convince. C’è sotto qualcosa di molto più complesso. Io una volta sono stato sequestrato solo pochi giorni, e mi sono bastati per capire come si esca con le ossa rotte, da quelle esperienze”.

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Nell’intervista, padre Giulio Albanese rammenta inoltre come molti di quelli che stanno commentando la storia di Silvia Romano in queste ore non sappiano nulla della storia della Somalia negli ultimi trent’anni; un paese che dopo la caduta del dittatore Siad Barré nel 1991 è precipitato in una guerra civile che dura ancora oggi: “Ci si dovrebbe rendere conto di che cosa significhi finire nelle mani di Al Shabaab. È l’equivalente di Boko Haram in Nigeria. Gente che te ne fa di cotte e di crude […] Non sappiamo quali siano le condizioni spirituali e mentali di una giovane che sopravvive a un anno e mezzo con gente che ti può far fuori. Non sappiamo quanto sia stata libera. Leggo che si parla di sindrome di Stoccolma. Ma è prematuro. Chi spara giudizi con tanta leggerezza, non sa che cosa sia vivere in Somalia. Un Paese che dal 1991 è in uno stato spaventoso”.

In conclusione, il sacerdote esprime il suo parere in merito alle decine di ragazzi e ragazze che ogni anno partono per l’Africa in progetti di volontariato: “Preferiamo i giovani pieni d’alcol e di droga che si schiantano in macchina il sabato sera o questi ragazzi che fanno una scelta di volontariato? So anch’io che le Ong andrebbero meglio in una rete di network, che ci vuole senso di responsabilità, forse questa ragazza non doveva stare sola nella savana, che molto va rivisto… Ma serve moderazione”.