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Coronavirus, ora la Val Seriana chiede giustizia: "Noi denunceremo"

coronavirus, la val seriana chiede giustizia

Migliaia di casi e 6 mila vittime, ma fino al 23 marzo nessuno stop alle attività non essenziali: la denuncia dei familiari delle vittime.

L’Italia che ritorna in libertà, prova ad affacciarsi con ottimismo alla finestra dell’estate mitigata dal calo dei contagi e delle restrizioni, non può fare finta di non vedere la richiesta di verità e la domanda di giustizia che arrivano dalle zone più colpite dall’epidemia e ci accompagneranno negli anni a venire. A Bergamo e provincia nasce il comitato “Noi denunceremo, verità e giustizia per le vittime del Covid19”, composto da 55mila familiari, che impone la necessità di porsi delle domande sulle ferite aperte e che oggi presenta le prime 50 denunce presso la procura di Bergamo.

Il gruppo ha raccolto circa 30.000 storie, è nato spontaneamente tra i familiari delle vittime del territorio che da Bergamo sale fino alle vette alpine della Val Seriana. Sono determinati a non fermarsi fino a quando non sarà accertato perché una delle zone più prospere d’Italia e d’Europa si è trovata impreparata a fronteggiare la pandemia.

Coronavirus, la Val Seriana chiede giustizia

“Le nostre denunce sono tutte contro ignoti. Sarà la magistratura a dover dire se ci sono dei reati all’interno delle nostre storie. Noi ci limitiamo a raccontare ciò che è successo”. Luca Fusco è il presidente del comitato, un commercialista 58enne di Brusaporto, in provincia di Bergamo. Ha perso il padre Antonio, di 85 anni: non sa nemmeno se le ceneri che gli hanno restituito siano davvero quelle del padre, pare siano state trasportate in due diverse città, anzi in due diverse regioni dopo il decesso. In queste zone, tutte le storie hanno una trama simile, come in una serie tv dell’orrore che si ripete di comune in comune, non c’è una persona che non abbia un parente, un amico, un conoscente morto. Malati di polmonite spesso abbandonati in casa con le loro famiglie, difficoltà di ricovero, nessuna assistenza domiciliare, quasi sempre senza tampone. “Ci siamo ritrovati una montagna di casi di persone lasciate a casa per 15-20 giorni con polmoniti, perché il sistema sanitario non aveva più posti letto in ospedale” dice Fusco a Notizie.it.

Cristina Longhini è una farmacista di 39 anni, il padre morto a 65 per Covid. Prima curato a casa con antibiotici e fermenti, poi ricoverato all’ospedale Papa Giovanni XXIII quando la situazione si è aggravata. Non è stato soccorso da un medico di base, ma da un medico volontario che ha chiamato l’ambulanza. In ospedale la diagnosi di polmonite e il casco di ossigeno per tentare di salvarlo. Per una settimana la figlia non riceve notizie, poi dall’ospedale chiedono alla famiglia di aiutarli a trovare un posto di terapia intensiva in altre strutture. Ricerca vana. “Suo padre morirà tra qualche ora”, le dicono al telefono. E si dimenticano di avvertirla quando succede. Numeri da chiamare, l’impossibilità di vedere i propri cari, salutare, toccargli la mano, pochi secondi al telefono se rispondono per avere notizie.

Vogliamo sapere di chi siano le responsabilità delle negligenze a livello sia sanitario che amministrativo” dice Longhini a Notizie.it. “Il perché della mancata zona rossa e di tutto quello che ha messo in ginocchio Bergamo e provincia. Come farmacista mi ha colpito la gestione scellerata, ci siamo trovati a contatto con pazienti Covid senza mascherina, senza barriera e senza guanti. Sia io che mia madre come operatrici sanitarie. Mia madre si ammala sul lavoro e probabilmente contagia mio padre in casa”. E così si scopre che non tutta l’Italia chiusa in blocco era uguale, non è andato “tutto bene” per tutti. C’era l’Italia frustrata di non poter vivere lavorare uscire – spesso con ragioni economiche degnissime – ma in altre zone c’era l’Italia dove si giocava tra la vita e la morte. Dove persone hanno perso i loro cari senza nemmeno un saluto. Dove non c’era più posto per le bare. Dove le vittime segnavano numeri da guerra. E dove l’inverno – mentre il resto d’Italia riapre – non è passato.

Da Valbondione ad Alzano e Nembro

Nella provincia di Bergamo ci sono state 6.000 vittime di Covid, in Lombardia poco più di 16.000. Bergamo e la sua provincia hanno il più alto numero di morti e contagiati in Italia. Perché non è stata decretata la zona rossa qui mentre in altre zone è stato fatto?

La Val Seriana si snoda lungo il percorso del fiume Serio, per 50 chilometri. Nella parte più a nord, dove spiccano le Alpi, a Valbondione il vicesindaco Walter Semperboni parla di “sanità lombarda assassina”. Ha perso il padre che lo ha chiamato al telefono per l’ultima volta dicendogli “mi stanno facendo morire”. Scendendo lungo la valle c’è Clusone, nella cui casa di riposo sono deceduti 1310 ospiti su 6500. Il fondovalle è il tessuto produttivo della zona, molto ricco: Nembro, Alzano Lombardo, fino a Bergamo. Qui sono concentrate alcune tra le più importanti industrie italiane che producono il pil più alto del Paese, molte di queste hanno rapporti commerciali con la Cina. La Tenaris a Dalmine, leader mondiale nella produzione di tubi e servizi per l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas; Brembo della famiglia Bombassei con tre stabilimenti nel bergamasco; la multinazionale svizzero-svedese Abb, leader nell’elettrificazione e nella robotica con 850 dipendenti a Dalmine; Persico con sede a Nembro, che costruisce componenti per auto e scafi per le barche come Luna rossa.

La pressione degli industriali

“L’idea più condivisibile, soprattutto per chi abita nelle zone più colpite, è che si abbia avuto paura di fermare la produzione industriale di Alzano e Nembro” dice Fusco. “Non parliamo di un paesino sperduto in mezzo ai campi come Codogno, parliamo di una valle con centinaia di imprese e con un fatturato annuo che si avvicina al miliardo di euro. Se la Lombardia è il motore dell’Italia, la Val Seriana sono i suoi pistoni”. Ad Alzano Lombardo il 23 febbraio vengono scoperti i primi casi positivi, l’ospedale viene chiuso e poi riaperto misteriosamente. La Confindustria lombarda lancia l’hashtag “Yes, we work”, la Confindustria di Bergamo pubblica un video per gli investitori stranieri. In un solo mese si passa da 2 a 9000 contagiati, almeno ufficiali. I primi giorni di marzo si pensa di istituire la zona rossa, i sindaci erano stati allertati dalla prefettura per chiudere, l’esercito era già pronto, poi non se ne fa niente. Solo il 23 marzo il governo decide di chiudere le attività non essenziali. Ma nel frattempo il virus è impazzato per la valle, fa una strage nelle case, nelle rsa, negli ospedali.

Ci sono state pressioni delle lobbies degli industriali per non chiudere e se sì, su quali istituzioni? “Molti non sanno che oltre a Codogno, in Italia sono state costituite 117 zone rosse” aggiunge Cristina Longhini. “Noi siamo convinti che la nostra non si sia stata chiusa perché è una zona altamente industrializzata. Forse gli interessi a livello imprenditoriale erano più importanti degli interessi umani”. La gente del posto si sente tradita, così nasce l’idea di creare un sito e un gruppo. Bacheca, Facebook: ma stavolta non ci sono le storie dei fidanzamenti rotti o le foto dell’ultimo piatto culinario. Cominciano a confluire le storie. Marina Verzelletti ha perso la madre che le è stata riportata a casa dall’impresa con un sacco nero dell’immondizia. Dentro ci sarebbero dovuti essere i suoi effetti personali, invece c’erano quelli di un’altra persona. Mariangela Armanni racconta di come il padre sia peggiorato in casa in pochi giorni, nessun medico era disponibile a visitarlo. Solo un medico dell’Usca al telefono gli consiglia di continuare con le cure domiciliari, fino al decesso.

“Il nostro Denuncia-Day”

E così in uno sciogliersi di vicende raccolte in tre filoni: ospedali, Rsa e “nessun tampone”. Poi, la decisione di passare all’azione legale, in sede penale e civile. Ogni singola denuncia con il familiare che l’ha presentata. Curioso infatti che nel nostro ordinamento la class action sia prevista solo per i diritti dei consumatori. Oggi quelle storie diventano esposti presentati davanti alla procura di Bergamo. “È il nostro Denuncia-Day” dice Consuelo Locati, avvocato rimasta anche lei orfana di padre. “Siamo ordinati e distanziati, ma come persone e non come numeri”.