> > Covid, la prima malata di Roma: "Abbandonata, trattata come appestata"

Covid, la prima malata di Roma: "Abbandonata, trattata come appestata"

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La prima malata covid a Roma: "Curati con gli antivirali per l'Hiv e con l'idrossiclorochina. Siamo i reduci del Coronavirus"

Stefania Giardoni, 50 anni, è un ex commessa di un grande magazzino della Magliana, ed è stata la prima persona a Roma ad ammalarsi di covid alla fine di febbraio. Alla riscontrata positività sono seguiti mesi molti difficili contraddistinti da un lungo ricovero in più strutture ospedaliere (Covid hospital di Casalpalocco, San Filippo Neri, Spallanzani e Covid Marchiafava del San Camillo), terminato soltanto il 30 aprile. Oltre al danno, la beffa, visto che la donna, nel suo racconto al Messaggero, parla di essersi sentita fortemente discriminata e abbandonata dopo la lunga degenza e la negativizzazione del virus. “Ci sentiamo abbandonati, lasciati soli a vivere una vita che non è più la stessa di prima, trattati come degli appestati”, ha detto.

Covid, il racconto della prima malata di Roma

“Nulla è più come prima – ha dichiarato Stefania Giardon – L’altro giorno i vicini che abitano sopra di me hanno aspettato che io entrassi in casa e chiudessi la porta per salire sul mio pianerottolo e proseguire sulle scale. Dopo la malattia ora tocca combattere con l’ignoranza“.Stefania ha trovato in parte conforto in un gruppo di persone che hanno avuto il coronavirus (Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto) e che condividono la loro esperienza per cercare di portare un reciproco benessere. “Ho scoperto – racconta Stefania – che non sono l’unica, a mesi di distanza, a perdere i capelli come se facessi la chemio, ad avere subito l’interruzione del ciclo mestruale e come me, in tanti, hanno dolori fortissimi alle ossa, ai piedi, una fitta costante al torace per le cicatrici ai polmoni. Per i primi due mesi sembra che ti porti appresso un sasso, ti senti rigida quando ridi, quando respiri”.

In questi mesi sono venuta in contatto con molte persone, uomini e donne, che si sono ammalate mentre lavoravano come operatori socio sanitari o addetti alle pulizie in ospedali o case di cura, chi ha ripreso a lavorare lo fa con molta più fatica e la paura di contagiarsi di nuovo. Ma nessuno può dire che non ce la fa, sennò rischi di perdere il lavoro. Per tutti loro, per tutti noi c’è bisogno di un supporto vero, di entrare a fare parte di un percorso assistito e con tutele. Il follow up attuale non è sufficiente. Mi chiedo – aggiunge la donna – non è possibile programmare per noi pazienti sperimentali, i primi ad avere combattuto il Covid quando anche le cure andavano per tentativi, giornate di day hospital per uno screening completo? Perché né io né altri possiamo pure prenderci il lusso di richiedere giorni o permessi di continuo. Siamo stati i primi, curati con gli antivirali per l’Hiv e con l’idrossiclorochina. Siamo i reduci del Coronavirus”.