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Omicidio Colleferro: violente sono le persone, non le arti marziali

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La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco.

L’omicidio di Willy Monteiro Duarte, il 21enne massacrato con calci e pugni da quattro giovani di Artena per aver cercato di proteggere un coetaneo, è una vicenda dai tanti risvolti – etici, morali, razziali – che ha creato un grosso misunderstanding a causa della morbosità dei giornalisti nello scavare nella vita privata dei responsabili del pestaggio. Scavando scavando subito è apparso all’occhio il dettaglio perfetto per la narrazione del cattivo: Marco e Gabriele Bianchi, rispettivamente di 24 e 26 anni praticavano le mma (mixed martial arts, arti marziali miste, per chi non fosse esperto). E da subito sulla stampa è stato è partito il processo di demonizzazione a chi pratica la disciplina. I fratelli Bianchi sono così diventati ‘picchiatori’ perché si allenavano in palestra con guantoni e colpitori, come se questo fosse direttamente collegato alla volontà di massacrare un individuo. E la caccia alle streghe si è estesa ai centri sportivi che insegnano le mma, portata avanti sui social anche dal giornalista Massimo Giannini, che in un tweet chiedeva di “bandire certe discipline marziali e chiudere le relative palestre”, seguito a ruota da migliaia di internauti.

Troppe le inesattezze. Una su tutte: come le altre arti marziali, anche le mma hanno delle regole. Ogni incontro è regolato da un arbitro, che sospende il match quando vede una situazione di pericolo per uno dei due combattenti. Come tutte le arti marziali, nelle palestre si insegna la disciplina e a utilizzare quanto appreso solo per difesa personale. Quindi il paradigma “sono violenti perché praticano mma” è sbagliato, perché lo sport non genera rabbia, al massimo la incanala per raggiungere un obiettivo.

Ragionando per estremi, bisognerebbe evitare di insegnare i tackle a calcio, perché potrebbero essere riprodotti al di fuori dei campetti e fare male. Una proposta assurda, vero? Eppure quando un episodio di cronaca vede coinvolto un praticante di arti marziali o di boxe, subito si presuppone che sia un violento e che in qualche molto lo sport abbia accentuato questa sua natura. Una volta saliti sul tatami in palestra, invece, la prima cosa che viene insegnata dai maestri è la disciplina e qualunque utilizzo delle tecniche al di fuori del dojo è vietata. E quasi sempre, quando sono emerse violazioni di queste regole, l’atleta è stato allontanato dalla palestra, come sicuramente avverrà per i fratelli Bianchi.

Sarebbe stata data la stessa enfasi al dettaglio se i due fratelli avessero praticato calcio, tennis o pallavolo? Probabilmente sarebbe stato relegato a mero abbellimento all’interno della narrazione. Invece tanti approfondimenti sono stati dedicati alla combinazione tra lotta, wrestling e boxe che connota le mixed martial arts, come se all’improvviso fossero emerse dal nulla, dimenticando che questo sport negli Usa trascina un business milionario (il match McGregor-Cerrone a gennaio ha portato un incasso per il vincitore di circa 80 milioni di euro – tra ‘borsa’ dell’incontro, proventi della pay per view, sponsor ed entrate collaterali – secondo i media anglosassoni). Dove nonostante l’alta posta in palio, quando la ‘campanella’ suona e gli atleti escono dal ring, non c’è più spazio per la violenza, anche nelle vite private. Tra i professionisti – ma anche tra gli stessi praticanti – i casi di utilizzo della violenza al di fuori della difesa personale sono minimi.

Smettiamola quindi di perderci nei luoghi comuni e facciamoci una domanda: se i fratelli Bianchi – con precedenti per rissa e spaccio – non fossero stati praticanti di mma, la vicenda sarebbe andata in modo diverso? La violenza ti cresce dentro per le esperienze che la vita ti fa provare, non si impara tirando pugni a un sacco.