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Seconda ondata di Coronavirus: i dati falsati per evitare le chiusure

Gimbe Covid

In un'intervista a Notizie.it, Nino Cartabellotta sottolinea le criticità nella raccolta dei dati sulla seconda ondata e la loro influenza sulle scelte del governo.

Alla fine il lockdown nazionale non ci sarà, ci saranno chiusure e restrizioni locali, regionali, cittadine fino alla fine dell’inverno e nell’attesa delle prime dosi di vaccino. È quello che va ripetendo a ogni riunione il ministro Boccia a quei governatori che gli chiedono una stretta nazionale: “Non ci possiamo permettere quattro mesi di lockdown”. L’economia italiana non se lo può permettere, i ristori non possono essere infiniti, gli aiuti economici già stanziati in molti casi tardano ad arrivare.

Eppure il meccanismo che ruota intorno alle aperture e chiusure è abbastanza semplice e di facile comprensione anche per chi non ha vinto il Nobel per la Medicina. Se l’indice Rt, il tasso di riproduzione del virus, supera l’1,5 – cioè se una persona infetta ne contagia in media una e mezza – mette il sistema sanitario a rischio. Nella settimana dal 9 al 15 novembre l’indice Rt di trasmissibilità a livello nazionale è arrivato all’1,7. L’Italia ha superato quelle che vengono ritenute altre due soglie critiche indicative, l’1 per cento della popolazione infetta e il 40% delle terapie intensive occupate.

Ma come siamo arrivati fin qui? Con i dati che ogni settimana le Regioni fornivano al ministero della Salute analizzati dal Comitato tecnico scientifico. Dati che fino al 1° novembre erano così virtuosi da destare più di un sospetto, visto che a noi arrivavano le scene delle file di auto davanti agli ospedali di alcune regioni, la consapevolezza che qualunque sistema di tracciamento era saltato e soprattutto i bollettini con centinaia di morti al giorno.

Quattro regioni – Campania, Emilia Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia – erano già da una settimana nello scenario 4, cioè “rosse”, in una mappa presentata lunedì scorso al Comitato tecnico scientifico. Ma sono rimaste “gialle” per giorni, così come la Campania.

Otto regioni addirittura dichiaravano un tracciamento dei contatti al 100%: Basilicata, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Molise, Bolzano, Trento. Si tratta del “numero di casi confermati per cui sia stata effettuata una regolare indagine epidemiologica con ricerca dei contatti stretti/totale dei nuovi casi”. Altre poco sotto: Campania al 96,6%, Sardegna al 98,5, Lazio 97,6, Umbria 95, Puglia 92. Questi erano i bollettini forniti prima che si sarebbero decise le chiusure.

Viene da chiedersi se sia possibile, se siano dati veritieri o messi lì dopo qualche telefonata e una manciata di nominativi registrati. Per tracciare i contatti bisognerebbe cercare dieci persone per ciascun contagiato. La Campania che dichiarava di aver fatto un’indagine epidemiologica per 50.261 positivi avrebbe dovuto fare mezzo milione di telefonate. Il Lazio dichiara indagini su 18.993, cioè quasi 200 mila telefonate.

Alcune regioni, tra l’altro, dichiarano tracciamenti “contenuti” ma forse più “realistici”: la Liguria traccia solo il 44,5% dei positivi, cioè 4.510 con 45.000 telefonate e la Toscana si ferma al 39,9%. Non è una questione di poco conto: se i dati sui tracciamenti fossero arrivati meno “taroccati” e più credibili le misure di contenimento si sarebbero potute anticipare e magari si sarebbero potuti evitare diversi ricoveri. Non solo: chi ha registrato bene i dati ha un Rt più alto e giustamente si trova in zona arancione o rossa, chi non l’ha fatto si trova in zona gialla ma in realtà dovrebbe essere in arancione o rossa e sta lasciando correre il virus indisturbato.

Notizie.it ha sentito sulla questione il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, che da tempo ha lanciato una petizione per chiedere dati open, resi pubblici e disaggregati, e che dichiara a Notizie.it: “Ci sono alcune criticità evidenti nell’attuale sistema di monitoraggio della pandemia che informa le scelte del Governo. C’è una limitata tempestività, dovuta ai tempi di consolidamento dei dati e ai crescenti ritardi di notifica da parte delle Regioni. Questo favorisce e non previene la corsa del virus. Ci sono criticità che riguardano la qualità e completezza dei dati regionali, oltre che la complessità tecnica e il peso eccessivo attribuito all’indice Rt”.

“L’attribuzione dei colori alle Regioni – continua Cartabellotta – viene effettuata utilizzando due parametri principali: lo scenario identificato dai valori dell’indice Rt e la classificazione del rischio attraverso i 21 indicatori del DM 30 aprile 2020. Tuttavia, il valore di Rt è inappropriato per informare decisioni rapide perché, oltre ad essere stimato sui contagi di 2-3 settimane fa, presenta numerosi limiti. L’Rt viene stimato solo sui casi sintomatici, circa 1/3 dei casi totali; si basa sulla data inizio sintomi che molte Regioni non comunicano per il 100% dei casi, determinando una sottostima dell’indice; è strettamente dipendente dalla qualità e tempestività dei dati inviati dalle Regioni e quando i casi sono pochi, rischia di sovrastimare la diffusione del contagio”. Quindi secondo Cartabellotta il sistema di monitoraggio che informa le decisioni politiche non è uno strumento decisionale adeguato.

Abbiamo verificato la questione della data di inizio sintomi, necessaria al calcolo di Rt. Anche qui alcune Regioni dichiaravano il 100% del numero di casi (sintomatici): Emilia-Romagna, Trento, Toscana. Le Marche dichiaravano il 99,9 ma la settimana precedente il 67,2; la Campania il 97,7 ma la settimana precedente il 63,9; l’Abruzzo il 91,9 ma la settimana precedente il 32,2; l’Umbria l’87,8 ma la settimana precedente il 62,4; la Liguria il 65,5 ma la settimana precedente il 49,4; la Basilicata addirittura salta dal 7 al 56,3% in una settimana, sotto la soglia comunque che fa scattare il colore arancione.

Il virus corre, i numeri possono soltanto inseguirlo ma che la seconda ondata sarebbe arrivata lo sapevano anche le scimmie. Una pandemia che investe il globo senza precedenti non può che portare conseguenze drammatiche e soluzioni inedite, anche improvvisate. Si ha però più di un’impressione che la stanchezza e le proteste sociali abbiano intimorito alcuni “governatori”, spingendoli a rimandare o a cercare di evitare le chiusure.

L’Italia aveva alcune settimane di vantaggio rispetto agli altri paesi europei. Forse anziché blaterare di “virus clinicamente morto”, anziché riaprire le discoteche estive solo per favorire un minuscolo settore, anziché chiedere di riaprire gli stadi o criticare il governo sullo stato di emergenza, si sarebbero potuti utilizzare meglio i fondi stanziati per ogni regione. A cominciare dai Covid hotel, di cui non c’è traccia, che avrebbero potuto ospitare gli asintomatici e i pazienti guariti ma che risultano ancora positivi, per liberare i reparti ordinari e i pronto soccorso.