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Vittorio Agnoletto: "Il Coronavirus ha trovato un aiuto da parte delle istituzioni"

intervista a vittorio agnoletto

In un'intervista a Notizie.it, Vittorio Agnoletto spiega che con il libro "Senza Respiro" intende mettere le sue ricerche sul Coronavirus a disposizone dei magistrati.

“«Attendere che la malattia si sia manifestata per porvi rimedio e che il disordine si sia insediato per occuparsene è come attendere di avere sete per scavare un pozzo. Non è forse troppo tardi?». È questa la domanda che dobbiamo porci”. A dirlo nel suo ultimo libro è Vittorio Agnoletto, medico specializzato in medicina del lavoro (insegna Globalizzazione e politiche della salute all’Università degli Studi di Milano), ex europarlamentare e membro dell’associazione Medicina Democratica. Senza respiro è un’inchiesta indipendente (già nelle mani dei magistrati milanesi) sulla gestione della prima fase della pandemia. Ai microfoni di Notizie.it, Vittorio Agnoletto ricostruisce cosa non ha funzionato a livello nazionale e regionale, svela perché non siamo stati in grado di reggere l’urto della prima ondata e propone un nuovo modello di sanità pubblica e privata.

Il ricavato dei diritti d’autore sarà devoluto interamente all’Ospedale Sacco di Milano, una delle strutture sanitarie pubbliche in prima linea contro la pandemia.

Intervista a Vittorio Agnoletto

“Senza respiro” è un’inchiesta sulla prima fase della pandemia. Che cosa è andato storto a febbraio-marzo?

Io non avrei voluto scriverlo, questo libro. Per me è stato un dovere per evitare che ci dimenticassimo di quello che è accaduto, perché c’è una reazione – sia individuale che collettiva – di rimozione delle sofferenze e dei dolori. Credo che invece sia importante rielaborare questa sofferenza e questo dolore per trovare un equilibrio e per trarre un insegnamento.

Nel libro emerge in modo molto chiaro che questo virus ha trovato, purtroppo, un aiuto da parte di diverse istituzioni o per quello che non hanno fatto o per quello che hanno fatto in modo sbagliato. Ho raccolto centinaia di testimonianze, segnalazioni e denunce da parte di persone coinvolte, parenti delle vittime e operatori sanitari. Ora tutto è a disposizone dei magistrati.

Già prima dell’estate ha duramente criticato l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, che ha ringraziato gli ospedali privati per aver “aperto le proprie stanze lussuose ai pazienti ordinari”. Oggi fa discutere la notizia di alcune strutture private che offrono prestazioni a domicilio per diverse centinaia di euro nonostante l’emergenza. Sul versante pubblico, il sistema di tracciamento dell’Ats è andato in tilt proprio quando c’è più bisogno. Fin da febbraio-marzo la pandemia ha evidenziato gravi lacune anche in una regione considerata d’eccellenza come la Lombardia. Serve pensare a un nuovo modello di sanità? Com’è possibile integrare in modo efficiente pubblico e privato?

Ma la Lombardia ha davvero una sanità di eccellenza? Non c’è nessun dubbio che se un cittadino ha bisogno di una cura sperimentale o un intervento chirurgico estremamente complesso, guarderà alla Lombardia. Ma la medicina è solo questa – super specializzata, iper tecnologica, estremamente costosa e personalizzata? In Lombardia manca la medicina territoriale, la prevenzione, il servizio quotidiano, l’assistenza domiciliare. Tutte queste cose sono ridotte ai minimi termini, a volte esistono solo sulla carta. Le persone a casa sono abbandonate a se stesse, anche in epoca pre Covid. Senza parlare delle condizioni in cui lavorano i medici di medicina generale: per settimane non hanno ricevuto neanche i dpi, quindi non potevano andare a visitare i malati. Le Usca dovrebbero essere uno ogni 50mila: in Lombardia ce ne sono meno di un terzo. Ecco perché le persone poi si rivolgono al pronto soccorso. Anche questa è medicina, e in questo campo la Lombardia non è sicuramente un esempio di eccellenza.

La sanità privata, del resto, si comporta come qualunque azienda: vuole ottenere il maggior profitto possibile. Più malati ci sono, più la sanità privata guadagna. Quindi la prevenzione non è di alcun interesse, anzi, perché una prevenzione efficace sottrae malati alle aziende ospedaliere. La sanità pubblica dovrebbe agire secondo una logica completamente diversa. Il disastro che si è verificato in Lombardia (e non solo) è che chi gestisce la sanità pubblica ha seguito la stessa logica e gli stessi obiettivi della sanità privata, ben prima della comparsa del coronavirus.

Il virus è comparso in Lombardia almeno a fine novembre 2019, alcune ricerche dicono ancora prima. Eppure non è successo nulla. Il sistema di sorveglianza, di controllo dell’epidemia, il piano pandemico: dov’è finito? Ci sono medici di Bergamo e di Codogno che in quel periodo hanno visto diversi pazienti con una polmonite interstiziale. Avranno fatto le segnalazioni obbligatorie: in quale cassetto della Regione sono finite? Quale funzionario le ha ignorate? Quale assessore non ha attivato la sorveglianza sanitaria? Quante infezioni potevano essere evitate individuando il virus in Italia a gennaio e non il 21 febbraio?

Oggi la Lombardia fa il tampone solo ai sintomatici. Si apre un vuoto in cui si infila il settore privato, dove però un test può arrivare fino a 300 euro. Viene da chiedersi: sono casuali questi regali enormi che la Regione sta facendo ai privati? Una domanda legittima, soprattutto considerando che un ex presidente della Lombardia e un ex consigliere regionale (Roberto Maroni e Angelo Capelli, ndr), che hanno contribuito a presentare la legge che oggi regola la sanità lombarda, quando hanno finito il loro mandato istituzionale sono stati inseriti nel Cda di uno dei più importanti gruppi sanitari privati (il gruppo San Donato, ndr). Vuol dire che come minimo non avevano dato noia, forse la loro azione li aveva favoriti.

Come siamo arrivati a questo punto e cosa si può fare ora?

La vera domanda è: cos’hanno fatto le istituzioni in questi mesi, da maggio a settembre? Nessuno di noi sapeva se ci sarebbe stata una seconda ondata, ma avevano il dovere di applicare il principio di precauzione, preparandosi ad affrontare il peggio. Uno dei posti a maggior rischio contagio sono i mezzi pubblici: sono stati potenziati? Perché le amministrazioni non hanno usato i migliaia di pullman fermi per lo stop del turismo? Sono stati potenziati i sistemi di tutela sui luoghi di lavoro? Quanti saturimetri sono stati dati ai medici di medicina generale, quante bombole di ossigeno? Perché alcuni laboratori pubblici non funzionano e il personale è in smart working? Ma soprattutto, com’è possibile che non ci sia un sistema funzionante di tracciamento dei contatti? Nulla di tutto questo è stato fatto. L’Ats non segue più i contatti stretti, dal punto di vista medico è come aver alzato bandiera bianca. Abbiamo detto al virus: “Circola pure liberamente, ci asserragliamo negli ospedali”.

Oggi si discute di un possibile lockdown generalizzato come quello di marzo. Siamo di nuovo al punto di dover scegliere tra salute ed economia?

Non bisognerebbe essere obbligati a fare una scelta. La salute è fondamentale per il singolo e la collettività, quindi anche per l’economia, e per far funzionare l’economia bisogna far funzionare gli ambienti di lavoro in sicurezza. Non solo nelle regioni, ma anche a livello nazionale: quante volte il Ministero ha mandato gli ispettori a verificare che le condizioni di sicurezza vengano rispettate? Mi auguro che non si debba arrivare a un lockdown nazionale, ma dico chiaramente che se ci si arriva sarà anche per colpa di chi non ha fatto quanto doveva.