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L'Italia che si preoccupa di migranti, di dieci di loro se n’è beatamente dimenticata

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Un paese che si mobilita per Patrick Zaky, ma non sa sentire come un’ingiustizia il sequestro di 18 pescatori di Mazara, oppure un paese che si preoccupa per i 18 pescatori ma si è stancato di sentir parlare di Regeni, è un paese moralmente fragile, con bandiere rigide e orbe.

Di tutto questo finale della vicenda che adesso vede i pescatori di Mazara in rotta verso casa, la cosa più surreale è che il ritorno a casa è scortato da una nave della nostra Marina Militare. Spero sia solo un appoggio logistico, cedessero le batterie o finisse il gasolio, perché proteggerli ora, dopo che si è permesso venissero sequestrati in acque che erano di gran lunga internazionali, è un po’ troppo facile.

È facile anche fare polemiche sullo show del viaggio a Bengasi di Conte, Di Maio e Casalino, e sul telefonino di quest’ultimo, che si fa geolocalizzare, per sbaglio o per sete di gloria. Non ne farei: qualunque prezzo fosse da pagare per la liberazione dei 18 pescatori, andava pagato. E non credo sia stato un blitz, quello del trio, alla ricerca di applausi e di consensi. Piuttosto credo sia stato parte del prezzo da pagare: ve li diamo, ma venite a prenderli, vi scomodate numero 1 e numero 2, più portavoce con telefonino, facciamo qualche bella foto, e così è andata.

Non gli abbiamo dato altro, in cambio. Non gli aguzzini – c’è una sentenza – calciatori e scafisti, che restano in cella. Non soldi. Gli abbiamo fatto un inchino, e detto un grazie, e li abbiamo riportati nel novero dei minuetti tra persone rispettabili e ragionevoli, tra interlocutori.

C’era un’alternativa? Non credo, a meno di impegnarci in un blitz militare – abbiamo reparti in grado di farlo – ma non è nel nostro stile, e sarebbe stata un’opzione con molte incognite. I soldi non valevano, per dei sequestratori che nuotano nel petrolio. L’unica alternativa era quella di liberare i detenuti libici, e sarebbe stato un inginocchiarsi a metodi banditeschi: l’Aise, i nostri servizi, hanno preferito apparecchiare un incontro incravattato, e in cambio, quello che a me preme, è che i pescatori sono liberi.

Non è la prima brutta figura in politica estera, e non è solo la figura di un governo con poca politica estera, è un andazzo che dura da tempo, se ricordiamo la vicenda dei marò e persino la recente liberazione di un sacerdote e di un altro italiano in Mali, mediata e pagata dai servizi francesi, a quanto racconta un terrorista finito in carcere in Algeria. C’ è un dettaglio che in fondo è il più atroce, perché per molte persone senza paraocchi è un tormento interiore. Per la liberazione dei 18 dobbiamo un grazie ad Al Sisi, che è nume tutelare, nella Libia del maresciallo Haftar.

E qui ritorna la questione Regeni, perché i rapporti con Al Sisi inevitabilmente la tirano in ballo. Sono tra quelli che pensano che la verità sulla morte di Regeni sia di fatto una verità acquisita e che un processo sia pure in contumacia avrebbe un peso, almeno per la storia: lo si celebri, e su eventuali condannati si faccia valere un mandato di cattura internazionale, restino prigionieri della loro impunità.

Ma sono anche tra quelli che pensano che il ruolo dei docenti universitari angloegiziani non sia stato valutato appieno, né il ruolo dei Fratelli Musulmani, che ancora oggi usano il simbolo Regeni come uno scudo per la loro causa. Sono tra quelli che pensano che l’Europa si misura anche su vicende come queste, oltre che sul Mes o sul Recovery Fund. E si misura anche l’Italia, e non solo i suoi governi.

Diciamocelo, senza giri di parole: un paese che si mobilita per un bravo ragazzo egiziano, Patrick Zaky, ma non sa sentire come un’ingiustizia il sequestro di 18 pescatori di Mazara, oppure un paese che si preoccupa per i 18 pescatori ma si è stancato di sentir parlare di Regeni, storia chiusa, è un paese moralmente fragile, con bandiere rigide e orbe.

Dovessi dire cosa mi incuriosiva più di tutto, in questa schizofrenia, era il fatto che tutto il mondo di buona volontà che per vocazione si preoccupa di migranti, solo per dieci di loro se n’è beatamente dimenticato: i dieci tunisini, indonesiani e senegalesi che erano parte dei diciotto di Mazara. Gente che lavora, che si è integrata, che ha famiglia a Mazara. Nuovi italiani, li avrebbero chiamati, se se ne fossero occupati, e preoccupati.