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Il pianista morto mentre faceva il fattorino è il culmine dello stato di abbandono degli artisti

adriano urso, il pianista morto mentre faceva il fattorino

Lo spettacolo dal vivo si è fermato all’inizio della pandemia e non è mai più ripartito: dovranno passare quintali di vaccini prima di rimettersi in moto.

Prendete un musicista jazz, sapete quei musicisti jazz che negli abiti, nei portamenti, nell’eleganza antica e nel suo fare musicale riporta alle fumose atmosfere come le vediamo nei film, uno di quelli che nelle sale da ballo, nei club è riconosciuto per il suo talento e la sua passione, uno di quelli che profuma di tempi andati, di un incanto che sembra provenire da un’altra epoca ed è qui ancora tutto intatto.

Adriano Urso era un pianista jazz molto conosciuto negli ambienti romani e nazionali. Con suo fratello Emanuele, clarinettista e batterista soprannominato “King of Swing”, si esibivano in duetti memorabili che continuavano fino a notte fonda.

Ora prendete quel musicista e sbattetelo dentro l’incubo di questa pandemia che ha sgretolato i modi, che ha schiacciato le prospettive e Adriano Urso lo ritroverete in una freddissima nottata romana, di domenica, con la sua Fiat 750 d’epoca. Adriano Urso consegnava cibo a domicilio per l’azienda danese Just Eat. Li chiamano “rider” per dargli una pennellata di modernità ma sono fattorini schiavi di un algoritmo da sfamare per riuscire a racimolare qualche euro ogni consegna. La Fiat 750 non riparte, passano due passanti che provano a dare una mano a spingere e Adriano Urso si accascia a terra. Forse lo sforzo. Forse il freddo.

Adriano Urso muore e il mondo della musica piange questa storia che dai tasti di un pianoforte suonati con il sigaro in bocca si conclude nell’imbuto di una strada romana. L’estate scorsa era a Villa Celimontana con il suo «Swing Quartet» a suonare George Gershwin e Duke Ellington, anni fa era stato sul palco con un mito come il sassofonista e compositore Lee Konitz. Ora è arrivato l’ultimo accordo, stonato, con la faccia per terra.

Gli amici di Urso raccontano che anche lui vedeva nero: senza musica era perso, pensava che non sarebbe più tornato a suonare per gli altri. La disperanza è un sentimento sottile che si intacca tra le vene. Sono migliaia gli operatori dello spettacolo dal vivo che sono passati dall’adrenalina del pubblico, degli applausi e dei palchi al silenzio rumoroso di giornate che scorrono senza prospettive, in attesa di qualche ristoro dalle istituzioni che è sempre troppo poco e con la difficoltà di imbucarsi in un mondo del lavoro che in questi mesi ha il nodo in gola. Attori, registi, musicisti, cantanti, ballerini, scenografi ma anche tutta la galassia che ruota intorno a quel mondo, i contabili, i tecnici, gli attrezzisti, tutto l’indotto.

Lo spettacolo dal vivo si è fermato all’inizio della pandemia e non è mai più ripartito. Qualche sparuta data estiva, per avere la sensazione almeno di esserne ancora capaci, ma il futuro è nero, nerissimo. Non si sa quando e come si potrebbe ripartire, una cosa è certa: il mondo dell’arte e della cultura non è certo ritenuto un’attività essenziale e dovranno passare quintali di vaccini prima di rimettersi in moto.

In Italia, con un calo medio dell’occupazione che si attesta al 2,9% nei settori dei servizi, la cultura ha perso il 10,5% delle posizioni lavorative. Le ore lavorate sono diminuite del 14,9%. Si tratta del peggior calo registrato dopo il settore turistico. E questi sono i numeri solo dei lavoratori dipendenti, per gli autonomi (che tra autori e artisti sono il 45%) la situazione è drammatica visto che non esistono nemmeno le giuste tutele. La relazione del 2019 in commissione Cultura alla Camera parlava di redditi annuali in media di 2.836 per oliatori, di 5.988 euro per gli orchestrali, di 10.696 euro per i cantanti: non stupisce che un settore già in crisi stia sprofondando sotto i colpi del virus.

Poi, al di là dei numeri, c’è l’enorme patrimonio umano e culturale che ha costruito la propria professionalità nel tempo e che ora si sta disperdendo. Qualcosa che non ha a che vedere solo con le statistiche ma che interessa l’identità culturale di un Paese. Identificare i lavoratori che hanno diritto a un sostegno risulta molto difficile sia per questioni statistiche sia per l’elevata quota di sommerso. Fino al “pianista” morto consegnando cibo a domicilio.