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San Patrignano oggi: viaggio nella comunità per tossicodipendenti più grande d'Europa

Sanpa 2021_ Luci e ombre di San Patrignano

Un'intera giornata a San Patrignano: come funziona oggi la comunità fondata da Vincenzo Muccioli? Lo raccontano a Notizie.it ospiti e operatori.

Circa 300 ettari sulle colline alle porte di Coriano, oltre mille ospiti e una storia lunga quasi mezzo secolo ne fanno la più grande comunità di recupero per tossicodipendenti di tutta Europa. Ma anche una delle più discusse e delle più controverse, a causa di un passato ingombrante che allunga la sua ombra sulla San Patrignano di oggi. In fondo, però, “se siamo ancora qui dopo 43 anni è perché abbiamo aiutato e ancora aiutiamo tantissime persone a uscire da un problema enorme” commenta orgoglioso il presidente della comunità, Alessandro Rodino Dal Pozzo.

È lui che ci accoglie al nostro arrivo a San Patrignano e che, seduto in mezzo a centinaia di ragazzi riuniti per il pranzo, ci regala un primo assaggio di quello che significa vivere qui. Tante cose sono cambiate da quel giugno del 1985 quando “sono arrivato qui, spinto dal desiderio di uscire da un mondo terribile in cui ero caduto ma che non era il mio” spiega Dal Pozzo. All’epoca “non sapevo né cosa fosse una comunità né cosa fosse San Patrignano né chi fosse Vincenzo Muccioli. Sapevo solo che qualsiasi cosa sarebbe stato meglio di quello che avevo vissuto. Avevo bisogno di amore e ho trovato amore“.

SanPa presidente nebbia-2

Come lui, dalla fine degli anni Settanta a oggi hanno cercato rifugio nella comunità fondata da Vincenzo Muccioli migliaia di ragazzi provenienti da tutta Italia (ma non solo), con percorsi diversi alle spalle ma tutti con un minimo comune denominatore: quel vuoto dentro che li ha spinti nel tunnel della tossicodipendenza. “Ormai la droga è talmente democratica che arriva ovunque, in tutte le classi sociali, in tutte le case, indistintamente – spiega – Cadono nel tunnel della dipendenza adolescenti ma anche professionisti e manager“.

Per tutti loro la disintossicazione rappresenta solo una percentuale minima, quasi trascurabile, del lungo e difficile percorso che intraprende chi varca questo cancello. “Risolvere la crisi d’astinenza è un gioco da ragazzi rispetto a quello che viene dopo” spiega il dottor Antonio Boschini, ex ospite e oggi responsabile terapeutico della comunità.

Antonio Boschini Sanpa

Un tempo entravano in comunità anche persone in piena astinenza. Oggi non è più così: “Chiediamo di compiere un percorso di disintossicazione prima di essere accolti. Ma bisogna essere elastici, perché a volte ti trovi di fronte a casi così gravi che non si può aspettare. Ora, per esempio, abbiamo qui una ragazzina di 16 anni che sta seguendo una terapia a base di metadone“. I farmaci, dunque, non sono un tabù (“il 15-20% dei nostri ospiti, a un certo punto del percorso, ha bisogno di un trattamento farmacologico con antidepressivi o stabilizzatori dell’umore“) ma vanno utilizzati nel modo giusto. L’obiettivo finale è liberarsi da ogni forma di dipendenza (anche farmacologica), riprendere in mano la propria vita e reinserirsi nella società attraverso il lavoro.

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Non si sta con le mani in mano a San Patrignano: c’è chi riprende gli studi, chi si iscrive all’università e chi – la maggioranza – impara un mestiere in uno dei quaranta settori formativi, dal lavoro agricolo alla tessitura, dalla falegnameria alla ristorazione.

La sveglia suona presto, a seconda della mansione di ognuno. La giornata è scandita dagli appuntamenti frutto di un equilibrato intreccio tra lavoro, terapia e momenti di svago. Una quotidianità che si ripete per un minimo di 3-4 anni: tanto dura il percorso a SanPa.

Un periodo lungo ma necessario perché la persona impari ad assaporare forme di gratificazione che sostituiscano l’appagamento dato dalla droga” spiega il dottor Boschini. “Nei primi due anni i ragazzi sono portati ad acquisire capacità introspettive, ricostruiscono il proprio passato e comprendono perché sono caduti nella trappola delle droghe“.

SanPa ragazza telaio

Non è facile né indolore scavare nel proprio passato e seguire a ritroso il filo che porta alla sorgente di quel malessere. Chi ci riesce, però, riceve in cambio l’incomparabile dono di una seconda possibilità. È stato così per Lapo, che a 19 anni sta per diplomarsi all’istituto alberghiero per poi iscriversi all’università. Il “caos che avevo in testa” lo ha spinto verso le droghe da giovanissimo, a soli 11 anni. Alle spalle una storia familiare difficile: un padre con un passato di tossicodipendenza, anch’esso “risolto” a San Patrignano (“è tutt’ora responsabile di settore qui a SanPa, anche per questo ha capito che c’era qualcosa che non andava“), una madre che si è trovata a crescere da sola tre figli e due sorelle con problemi di dipendenza ma che non hanno mai accettato di fare un percorso simile al suo.

In prima media ho cominciato con le birre e le canne, da lì ben presto mi sono trovato a fare uso di oppio, eroina, cocaina e crack. Non avevo carattere, seguivo la massa per farmi accettare dal gruppo e mi andava bene così” racconta Lapo. “A un certo punto però non riuscivo più a controllarmi, avevo cominciato anche a rubare per procurarmi la droga. Ho capito che avevo bisogno di una mano“.

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Qualche volta, però, l’origine del male è più subdola, si nasconde dietro la facciata di una vita a cui non manca nulla. “Sono nato in un quartiere periferico di Terni che non è proprio stupendo, ma all’interno di quella realtà mi sono sempre ritenuto fortunato” racconta Luca, 23 anni. “Vengo da una famiglia perbene, mia madre non mi ha mai fatto mancare niente, sono cresciuto circondato da affetto e anche gli studi sono sempre andati bene. Col senno di poi, credo di essermi avvicinato alla droga proprio per allontanarmi da una vita costruita troppo bene, piena di progetti ben fatti e conquiste facili“. SanPa lo ha salvato dal carcere (“sono stato denunciato per spaccio, furto, ricettazione ed estorsione“) e dalla dipendenza, ma soprattutto “mi ha fatto capire perché mi drogavo. Mi ha aiutato a piacermi come persona. Certo, è tutta teoria, la pratica si vede solo una volta fuori da qua…

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Luca è realista. Sa che, per quanto ricca di difficoltà e incidenti di percorso, c’è un’enorme differenza tra la vita a San Patrignano e quella appena oltre i confini della comunità. In questa sorta di piccola città-stato vigono leggi proprie che regolano ogni aspetto della vita quotidiana, anche i più banali, come il divieto di fumare.

Quando sono arrivato io, negli anni Ottanta, si fumava e anche tanto” racconta il dottor Boschini. “Presto è diventata una cosa insostenibile e si è imposto un limite, fino a quando nel 2007 abbiamo deciso di smettere del tutto“. Qualche anno dopo è stato abolito anche il bicchiere di vino che da sempre veniva servito a pranzo e cena “perché abbiamo molti ospiti dipendenti da alcol e per queste persone anche solo un bicchiere era diventato un’ossessione. Oggi siamo una comunità completamente anti-dipendenza“.

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Non sono esenti da limitazioni neppure i rapporti con l’esterno. “Per i primi dieci mesi non c’è alcun contatto diretto con le famiglie, nessuna visita, nessuna telefonata. I ragazzi possono comunicare solo per via epistolare… siamo gli unici che danno ancora lavoro alle Poste” scherza il responsabile terapeutico. “I ragazzi non hanno il cellulare né un accesso a Internet. Dopo il primo anno, però, cominciano le visite dei genitori, ogni 2-3 mesi. Nella seconda metà del percorso ci sono i periodi di ‘verifica’, in cui i ragazzi possono andare a casa per una settimana“. Limitare i contatti anche con i parenti stretti è un male necessario, spiega Boschini, perché non è raro che proprio nel nucleo familiare si annidi la causa del malessere. “Non voglio parlare di colpa, ma di responsabilità sì – continua – Quasi sempre il rapporto tra genitori e figli è patologico“.

La difficoltà più grande che incontrano i ragazzi non è il distacco dalla famiglia, anche perché molti di loro non ce l’hanno o, se ce l’hanno, è messa parecchio male” gli fa eco Marco Stefanini, ex ospite e oggi responsabile dell’accoglienza. Lui, che più di altri è a stretto contatto con i ragazzi, sottolinea che “chi è qui non ha problemi a rispettare le regole della comunità. Nessuno fuma, quindi non ti pesa non fumare. Nessuno beve, quindi non ti pesa non bere“. Quello che è davvero difficile è “credere in se stessi. E, a livello pratico, rispettare le regole che riguardano la cura del proprio corpo: pettinarsi, lavarsi, fare il letto, pulire la stanza. Tutte quelle cose che fuori delegavi ad altri o che non facevi proprio“. Riappropriarsi dei gesti quotidiani di una vita normale è già una piccola rivoluzione.

Marco Stefanini

Marco ne ha visti di ragazzi che sono passati di qui nella sua pluridecennale esperienza a SanPa, ma “i problemi e i limiti di chi entra oggi sono gli stessi che avevo io quando sono arrivato a 18 anni, nel 1981. Rivedo in loro lo stesso vuoto enorme“. Da quel vuoto lo ha salvato l’intuizione di Muccioli di “curare le dipendenze attraverso l’attenzione, l’amore, la responsabilizzazione. Dava ai ragazzi una seconda chance in un’epoca in cui la tossicodipendenza era vista come una malattia e veniva trattata con metadone, morfina e psicofarmaci“.

A Muccioli Marco deve la libertà dalla droga, ma non solo. “Ho trovato quella che è oggi mia moglie grazie a Vincenzo” racconta. “Era il 1993, ero qui da più di dieci anni ed ero ancora single. Vincenzo mi ha detto: ‘Tu non puoi restare senza una donna, te la trovo io’. Mi presentò sua nipote che faceva volontariato qui d’estate… fece tutto lui“.

SanPa stanza ragazzi

Oggi tra maschi e femmine c’è una convivenza a distanza, fatta di sguardi e di fantasie ma povera di contatti e parole; rapidi e timidi cenni da una parte all’altra degli spazi comuni che non possono concretizzarsi finché il percorso non è finito. “Solo allora ti accorgi che non hai niente in comune con quella persona che hai guardato in silenzio per anni” ride Giulia, entrata in comunità quando aveva 27 anni dopo oltre un decennio di tossicodipendenza e svariati tentativi – falliti – di disintossicazione. “I ragazzi non entrano nell’area delle casette delle ragazze – continua – e noi non andiamo nelle loro camerate. Anche i reparti produttivi sono divisi tra maschi e femmine e in quelli misti abbiamo comunque mansioni diverse“.

E se qualcuno infrange le regole? “Eh, ti buscano” scherza, poi torna subito seria: “Non le infrangi perché quel divieto è per il tuo bene. All’inizio non è facile, ma poi capisci che sei qui per riprendere in mano la tua vita. Se ti innamori di una persona e passi tutto il tempo a pensare a lui, come puoi concentrarti su te stessa?“.

Giulia Sanpa

San Patrignano “era la mia ultima chance, avevo già fatto troppi danni. Avrei perso la mia famiglia se non fossi venuta qua” riprende Giulia. Il pensiero torna ai primi giorni in comunità, quando ancora non credeva alle promesse degli educatori: che ogni tassello si sarebbe rimesso al suo posto, che insieme all’indipendenza dalle sostanze avrebbe recuperato anche le amicizie e la dignità. A quasi due anni da quel giorno “posso dire che avevano ragione. Ho riallacciato i rapporti con la mia famiglia, anche con mia sorella con cui non parlavo più. Proprio oggi mi ha detto che aspetta un bambino. Non vedo l’ora di poterla andare a trovare a maggio, sarà il mio primo ritorno in famiglia da quando sono arrivata qui“.

A San Patrignano Giulia ha ritrovato una sorella perduta, ma ne ha anche conquistate altre, tante quante sono le ragazze con cui divide la casa e il lavoro in comunità. “Tante volte ho pensato di andarmene – spiega – non vedevo un senso in quello che stavo facendo. A trattenermi sono state loro, il pensiero che le avrei perse. Qui dentro si creano dei legami incredibili“.

SanPa ragazze

Salvare migliaia di ragazzi da se stessi e permettere loro di scrivere un nuovo finale per la propria storia (il tutto in una struttura immensa e tutt’altro che fatiscente) ha un costo non indifferente, non solo umano ma anche economico. Le cifre si aggirano intorno ai 7-8 milioni di euro all’anno solo per l’amministrazione ordinaria.

alex dal pozzo

SanPa è nata totalmente sostenuta” spiega il presidente Dal Pozzo, basti pensare alla generosa mano dei Moratti che affiancarono Muccioli fin dalla fondazione. “Ancora oggi lo è – continua – ma cerchiamo di andare sempre più verso l’autogestione e la sostenibilità. I nostri settori produttivi coprono circa il 55% del nostro fabbisogno, a cui si aggiunge un 20% proveniente dai servizi che forniamo“. Ma una grossa fetta delle entrate arriva ancora dalle donazioni da parte di fondazioni, aziende e privati cittadini. Ai ragazzi, invece, non è richiesta alcuna quota. Solo da pochi mesi anche le loro famiglie hanno la possibilità di fare donazioni, se lo desiderano. “Ma – sottolinea Dal Pozzo – chi non può permetterselo deve sapere che per noi non cambia nulla. Siamo pronti ad accogliere e aiutare tutti, perché, in fondo, si drogano tutti“.