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L'Italia a un anno dal lockdown, alla vigilia della terza ondata

Pandemia Covid, un anno dopo

Il reportage dagli ospedali Santi Paolo e Carlo a un anno esatto dal primo lockdown, in un'Italia sospesa tra lo spettro della terza ondata e la speranza di uscire dall'incubo grazie al vaccino.

Ci sono momenti spartiacque che dividono la storia in un “prima” e un “dopo”. La liberazione del campo di Auschwitz, la caduta del muro di Berlino, il primo passo dell’uomo sulla Luna, l’11 settembre. Il coronavirus ha aggiunto un altro segno indelebile sul calendario: il 9 marzo 2020, quando l’allora premier Giuseppe Conte ha firmato il provvedimento “Io resto a casa” e ha tinto per la prima volta tutta l’Italia di quel rosso che da allora abbiamo imparato – tristemente – a conoscere. Quella che sembrava una serata come tante si è trasformata nell’inizio del primo lockdown nazionale.

Le parole danno forma al nostro mondo, al nostro modo di pensare. In 12 mesi abbiamo dovuto aggiornare il nostro vocabolario e imparare a usare i termini lockdown e quarantena. Abbiamo ridotto la nostra tavolozza a tre colori: giallo, arancione e rosso, più o meno scuri (anzi, rafforzati). Abbiamo familiarizzato con bilanci, bollettini e conferenze stampa e imparato a leggere tabelle ministeriali che giorno per giorno ci dicono se stiamo andando verso la luce o verso il baratro. Abbiamo imparato la differenza tra decreti legge e Dpcm, tra sintomatici e asintomatici. Abbiamo soppesato tutti i nostri rapporti per decidere chi può essere considerato un congiunto.

soccorritrici san carlo

Il nostro mondo si è ristretto improvvisamente e oggi guardiamo agli altri Paesi non come mete di un viaggio ma per le varianti che producono: inglese, brasiliana, sudafricana, nigeriana. Ci siamo abituati a uscire di casa con timore, brandendo l’autocertificazione come fosse uno scudo e chiedendoci a ogni posto di blocco se il nostro è davvero un “valido motivo”. Abbiamo esultato per quello che sembrava un traguardo irraggiungibile, l’arrivo di un vaccino che rappresenta la sola via d’uscita da questa realtà distopica a cui abbiamo dovuto fare l’abitudine, o almeno provarci.

barella ospedale san carlo

È passato un anno ma mi sembra che si stia ricominciando da zero“. Mentre pronuncia queste parole, gli occhi della professoressa Antonella D’Arminio Monforte – infettivologa e direttrice di Malattie Infettive all’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano – non riescono a nascondere la stanchezza e l’avvilimento “perché si sperava che il 2021 fosse l’anno della rinascita, ma per ora non è così“.

reparto malattie infettive ospedale San Paolo

La mente torna a un anno fa, ai primi di marzo, quando si è infranta l’illusione che questo nuovo male potesse restare confinato in Cina: “Abbiamo capito che la situazione era grave quando abbiamo iniziato ad avere 40 persone in pronto soccorso che non riuscivano a respirare. È stato uno shock“.

infermiere

Lì, in pronto soccorso, c’è anche Sergio, l’infermiere che ha accolto il primo paziente Covid dell’ospedale San Carlo. “Eravamo preoccupati fin da quando è stata proclamata la prima zona rossa a Codogno, ci aspettavamo che prima o poi l’emergenza sarebbe arrivata anche da noi” racconta. La situazione è precipitata una sera come tante, quando “è arrivata in ambulanza una signora residente a Milano ma che lavorava a Codogno, aveva febbre altissima e respiro affannoso. Non ce l’ha fatta, forse aveva aspettato troppo, ma il virus nella prima ondata era davvero aggressivo“.

A partire da quel momento tutto è cambiato. La voce di Sergio si incrina: “Abbiamo dovuto stravolgere ogni piano, riorganizzare l’ospedale, improvvisare per contenere queste ondate di pazienti che arrivavano anche a 90-100 al giorno. Ho visto morire 11 persone in un turno di 7 ore“.

Ospedale militare Milano 2

Alla morte non ci si abitua mai, non esiste un anestetico che renda sopportabile pensare che in 12 mesi l’Italia ha visto morire oltre 100 mila persone, una media di poco meno di 300 al giorno (numeri che dovrebbero far rabbrividire qualsiasi negazionista).

All’inizio della mia carriera ho vissuto un’altra epidemia drammatica, quella dell’AIDS” ricorda D’Arminio Monforte. “Noi giovani medici, appena entrati in servizio, abbiamo visto gente della nostra età morire come mosche“. Oggi la sensazione di impotenza e turbamento è la stessa: “Allora morivano i giovani della mia età, ora muoiono gli ‘anziani’ della mia età. Trovarsi di fronte alla morte non smette mai di fare effetto“.

medico esercito

Di quel marzo 2020 le è rimasto, indelebile, “il ricordo delle sirene delle ambulanze nel deserto della città, uno spettacolo lunare, post apocalittico. Mi è rimasto il volto delle persone che sono morte, ma anche i gesti di solidarietà verso medici e infermieri“, quegli eroi diventati troppo presto untori quando anche la voglia di cantare dai balconi e di dipingere arcobaleni si è esaurita.

Per Matteo Stocco, direttore generale dell’Asst Santi Paolo e Carlo, il punto di non ritorno è stato una domenica in cui “avevamo difficoltà a garantire le protezioni per i nostri operatori. È stata una giornata terribile, abbiamo mandato i nostri fattorini a cercare protezioni in altri ospedali“.

Matteo Stocco, direttore sanitario santi paolo e carlo

Quello che più mi ha colpito di questo anno di pandemia sono le videochiamate, sia quelle belle che quelle brutte, quelle in cui i pazienti chiamavano a casa per dire addio” aggiunge Sergio. Ma anche “vedere i pazienti dentro i caschi CPAP che, pur sapendo che quel dispositivo era l’unica cosa che poteva salvarli, dovevano combattere continuamente contro se stessi e il desiderio di strapparselo. In quei momenti dovevamo mettere da parte tutto il resto, sederci accanto a loro e convincerli a resistere ancora un po’“.

Vita professionale e personale si intrecciano in un groviglio di preoccupazioni che pesano ancora oggi come un fardello. Quando l’incubo è cominciato “mia moglie era al settimo mese, aspettava due gemelline” continua l’infermiere. “Non ho potuto assistere al parto né vedere mia moglie e le mie figlie per una settimana. Anche dopo, quando ho potuto riabbracciarle, ho vissuto con la preoccupazione di poter portare il virus dentro casa. È la cosa che più mi spaventa ancora oggi“.

Ospedale militare Baggio

Un anno fa “ci sembrava di essere in guerra, anzi, eravamo in guerra. Ora lo siamo ancora ma non ci troviamo più al fronte, siamo in trincea: è diventata una situazione di routine, un deja-vu” spiega l’infettivologa. Anche l’adrenalina, quella che ha permesso a migliaia di medici e infermieri di trasformarsi in eroi, è finita. Ora a prevalere è la stanchezza.

Per Sergio “questo ultimo anno è come un unico giorno che non finisce mai. La prima ondata non è mai finita, così come la seconda. Ora si parla della terza, ma la verità è che questa pandemia è come un’altalena con dei picchi e dei momenti di relativa calma, ma non c’è un solo giorno in cui non accogliamo almeno un paziente Covid”.

militare baggio

Ai sanitari di ogni ospedale d’Italia è stato e viene ancora chiesto uno sforzo immane per permettere a tutti noi di vincere questa guerra. Ma come si fa a trovare la forza di continuare a combattere se, una volta tolta la tuta e lasciato alle spalle il reparto, ci si imbatte in gesti irresponsabili come gli assembramenti in Darsena, a Milano, alla vigilia della zona arancione? “Vedo ragazzini senza mascherina, che si passano la birra o la sigaretta. Tutti abbiamo avuto 14-16 anni, so che a quell’età ci si sente invincibili, ma se ognuno di noi non fa la sua parte sarà difficile venirne fuori rapidamente” commenta Sergio.

Non credo che i giovani siano totalmente insensibili, credo piuttosto che ci sia molta insofferenza” aggiunge la professoressa D’Arminio Monforte: “Il senso civico è stato molto forte all’inizio, in ogni fascia d’età, ma l’isolamento produce danni. C’è chi non ce la fa più“.

soccorritore 118 ospedale san carlo

A un anno esatto di distanza da quel 9 marzo 2020, si leva sempre più forte la voce di chi chiede un nuovo lockdown per scongiurare un ulteriore aumento dei contagi, ma anche tra i medici e gli esperti c’è chi invita alla prudenza. “Non si può paralizzare un Paese per un anno, non è solo una questione di economia e di lavoro ma anche di stabilità mentale” spiega la professoressa. “Le chiusure devono essere localizzate, come si sta facendo in questo momento. Ma soprattutto, più che di un lockdown, c’è bisogno di vaccinare“.

fiala vaccino pfizer

L’unica speranza di porre fine rapidamente alla pandemia è racchiusa in una fiala di vetro non più grande di una falange. Se qualcosa è davvero cambiato rispetto a un anno fa, è proprio questo: ora abbiamo a disposizione un’arma contro il virus che ha messo in ginocchio il mondo intero. È il momento di usarla bene e in fretta perché, come ricorda il dottor Stocco, l’incubo “finirà solo quando saremo tutti vaccinati o quando avremo tutti contratto il virus e avremo sviluppato gli anticorpi“.

Vaccinazione in auto

In questa corsa contro il tempo sono ancora loro, medici e infermieri, i nostri eroi in prima linea. Come quelli in servizio al COM (Centro Ospedaliero Militare) di Milano dove a partire dal 4 marzo è stato aperto un nuovo padiglione in collaborazione con l’ASST Santi Paolo e Carlo. Alle 750 somministrazioni al giorno se ne aggiungono così altre 600, quasi raddoppiando l’offerta vaccinale tra le dosi Pfizer destinate agli over 80 e quelle Astrazeneca per il personale scolastico e le forze dell’ordine fino ai 65 anni (e presumibilmente oltre, dopo il via libera del Ministero).

Vaccinazione Ospedale Militare

Non c’è timore, solo speranza e fiducia negli occhi degli over 80 che – al drive through o nel padiglione appena inaugurato – arrotolano la manica e porgono il braccio al medico. E, di riflesso, negli occhi di tutti noi si ravviva la speranza che presto lockdown e zone rosse appartengano solo ai libri di storia e di non dover mai più vedere l’esercito sfilare per le strade a portare via i nostri morti.

anziani vaccinati esercito