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Chi odia paga, Francesco Inguscio presenta la startup contro gli haters

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In un'intervista a Notizie.it, Francesco Inguscio presenta Chi odia paga, la prima piattaforma legaltech per denunciare gli insulti sui social.

“Il bene fatto bene deve pagare bene”. Questo è il principio che anima il lavoro di Francesco Inguscio, fondatore di COP e della piattaforma Chi odia paga, la prima startup legaltech che aiuta chi è vittima di diffamazione e discriminazione sul web a procedere per vie legali. L’obiettivo non è solo punire chi sbaglia ma anche, e soprattutto, permettere a chi subisce un abuso di potersi difendere in modo facile, veloce e gratuito: “Questa è la sfida che spero riusciremo a vincere, con il supporto di tutti”.

Chi odia paga, intervista a Francesco Inguscio

COP, o più semplicemente Chi odia paga. Come nasce l’idea di un’azienda legaltech?

Parte da un bisogno, in questo caso da un bisogno di aiuto. Come si dice: “Se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo ce l’avrebbe”. Proprio dall’invidia nasce l’odio della gente che si scarica sul web: è ora di dire basta. È estremamente facile, veloce e poco costoso offendere le persone, mentre è difficile, lento e costoso difendersi attraverso un classico avvocato. Ho deciso di ridurre questo spread tra difesa e offesa, diminuendo i costi della prima e aumentando quelli della seconda. Da questo sogno nascono COP e la piattaforma Chi odia paga, per rendere accessibili i diritti dei cittadini con un clic.

Quanto è diffuso oggi, in Italia, il fenomeno dell’odio online e chi sono le vittime?

È diffusissimo. Abbiamo scoperto da una mappatura fatta da Vox che su 250 mila tweet analizzati in tre mesi oltre il 70% conteneva insulti. Sul web si consuma uno scontro tra minoranza e ignoranza: la pancia del popolo si scaglia contro un gruppo sociale (donne, ebrei, disabili, immigrati…). Immaginate se succedesse sotto casa vostra tutti i giorni: anche voi pensereste che è ora di dire basta.

Spesso le vittime di abuso non ne parlano, per paura o per vergogna. Come pensate di diffondere la cultura della denuncia?

Rendendola qualcosa di naturale. Se qualcuno ti ruba il portafogli vai a sporgere denuncia ai Carabinieri: così dovresti fare anche con chi ti insulta, online o offline. Quello che accade sul web è come se accadesse nel mondo reale, sotto casa tua: non c’è nessuna differenza. Non è un caso se il codice penale assimila la diffamazione a mezzo stampa a quella online.

Quando un individuo subisce un abuso, come può segnalarlo alla vostra piattaforma?

Come lo segnalerà, in realtà. Siamo attualmente in fase di beta testing con pochi soggetti selezionati che ci stanno aiutando a ottimizzare alcune features. La piattaforma sarà aperta al pubblico all’inizio del 2020. Le segnalazioni avverranno in forma anonima. Gli utenti riceveranno un feedback automatico per dire se si tratta di un reato o di libertà di espressione. Attenzione: quello di critica e di parola è un diritto garantito dalla Costituzione. Noi non facciamo censura, ma ci limitiamo a fare da filtro per separare le opinioni dalle dichiarazioni che possono avere un risvolto penale. C’è un iter automatizzato che aiuta a raccogliere le prove per poi procedere legalmente contro chi ti ha offeso, dalla semplice lettera dell’avvocato fino alla querela.

Una delle maggiori difficoltà per le vittime è riconoscere un vero e proprio reato in un atteggiamento di odio. Come superate questo ostacolo?

Garantiamo l’anonimato nell’analisi preliminare del caso. Tramite semplici domande, l’utente ci racconta quello che è successo, poi il nostro software riconosce se c’è un reato oppure no. Nel caso fosse reato, diamo tutti gli strumenti per reagire.

La proposta di associare un documento di identità ai profili social può accrescere la consapevolezza degli utenti e facilitare la lotta all’odio online?

Sicuramente può responsabilizzare, perché impedisce di nascondersi dietro un “passamontagna” e obbliga a mantenere un comportamento coerente tra mondo reale e mondo virtuale. Obbliga, anche sul web, a fare qualcosa di cui sei orgoglioso, come se lo stessi facendo davanti agli occhi di tua madre. L’obbligo di esibire un documento di identità, del resto, esiste già nel mondo reale. Ciò non toglie che esiste la privacy, ma se commetto un reato – online o offline – e la giustizia mi chiede chi sono devo presentare le mie generalità.

Anche i vip sono vittime di episodi di odio online, ma hanno un più facile accesso alla difesa legale.

Questo è parzialmente vero. Sono più visibili sia quando vengono insultati sia quando fanno causa e questa va a buon esito. Difendersi online, così come ogni altro servizio legale, ha un costo. I vip, avendo più denaro, possono accedere alla tutela dei propri diritti anche per situazioni per cui tanti altri dicono: “Fa niente, costa troppo, non ne vale la pena”. Finché ci sarà uno spread tra offesa e difesa saranno sempre i più deboli a pagarne le conseguenze. Senza contare che gli insulti ai meno ricchi non fanno notizia: nessuno si scandalizza, si parla solo dei vip perché sono i più invidiati per il loro stile di vita, perché è quello che noi “persone normali” non siamo. Chi odia paga vuole democratizzare l’accesso ai propri diritti.

Abbiamo capito che chi odia paga. E chi ama?

Chi ama aiuta quelli che sono odiati, sostenendo le cause di chi non è fortunato quanto lui. Io immagino questo circolo virtuoso come una tassa sull’odio. Le tasse esistono per pagare dei beni pubblici, al servizio del cittadino. Una tassa sull’odio può finanziare iniziative per il bene della popolazione. Chi ha la fortuna di amare può sostenere queste cause.