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Banche italiane a rischio: da "whatever it takes" alle sfide future

banche italiane a rischio

Nonostante i tagli, le banche italiane restano a rischio: per uscire dalla crisi è indispensabile far fronte alle sfide della digitalizzazione.

Era il Luglio 2012 quando Mario Draghi pronunciò la famosa frase “whatever it takes”. L’intento del governatore della Bce era chiaro, fermare a tutti i costi la speculazione finanziaria sui debiti sovrani dell’area euro, poiché, in gioco, c’era la tenuta dell’unione monetaria e dell’euro. La politica monetaria che Draghi inaugurò con quelle parole (articolata tramite il Quantitative Easing e il taglio dei tassi) è stata particolarmente accomodante. Può esserne una prova l’espansione del bilancio della Bce che è arrivato a toccare i 3.400 miliardi di attivo a fine 2018.

Sebbene tale iniziativa abbia permesso a Stati e privati di indebitarsi a tassi più bassi e quindi più vantaggiosi, per le banche, italiane in particolare, ciò ha causato una riduzione della redditività nell’intermediazione creditizia.

Banche italiane a rischio

Sostanzialmente, quindi, gli istituti di credito si sono ritrovati (e si ritrovano) a guadagnare meno nella loro attività caratteristica: la concessione di prestiti. Inoltre, la congiuntura economica negativa di questi ultimi anni ha accentuato considerevolmente un problema cruciale per le banche, la gestione del credito. Infatti, l’aver concesso prestiti prima della crisi, anche a coloro i quali non erano meritevoli di credito, ha portato a notevoli perdite nei bilanci delle banche italiane. Perdite, che hanno eroso il loro patrimonio causando una serie di aumenti di capitale. Intesa San Paolo, ad esempio, nel 2011 dovette chiedere ai propri soci 5 miliardi mentre Unicredit nel 2017 li chiamò in soccorso per 13 miliardi.

A oggi, sicuramente, le banche italiane si ritrovano in una situazione decisamente migliore rispetto al recente passato. Se infatti nel 2015, all’apice della crisi, l’ammontare di crediti deteriorati lordi era 341 miliardi, attualmente si attesta a 168 miliardi, meno della metà. Inoltre anche il rapporto tra i cosiddetti crediti non performanti e il totale dei crediti è passato dal 17% al 8%. Numeri incoraggianti, ma ancora lontani dall’obiettivo fissato dalla Bce per il 2021 di un rapporto pari al 5%.

La sfida della digitalizzazione

Tuttavia, queste non sono le uniche sfide che le banche italiane si ritrovano ad affrontare. Gli investimenti in tecnologia, da sostenere per la digitalizzazione dei servizi, sono ingenti, e la necessità di fare economie di scala è sempre più impellente. Le fusioni potrebbero essere una soluzione, ma le sinergie di costo non sono scontate. Senza contare che l’ innovazione tecnologica in ambito bancario si è tradotta anche in una serie di licenziamenti. Dal 2012 la Fabi conta circa 30.000 posti di lavoro persi. Ad ogni modo, sul fronte occupazionale non sembra esserci tregua. Nel nuovo piano industriale al 2023, Unicredit ha messo nero su bianco che intenderà procedere con 6.000 licenziamenti in Italia e la chiusura di 450 filiali.

Fino ad ora, la strada percorsa dalle banche italiane, salvo rare eccezioni, è stata quella di tagliare fortemente i costi, per far fronte all’ineluttabile discesa dei ricavi. Solo alcune di loro, come Intesa e Credem, hanno puntato a sviluppare i ricavi diversificando le fonti di entrata. Così, accanto all’attività tradizionale di intermediazione creditizia, hanno affiancato il private banking, le “fabbriche di fondi”, l’investment banking e le assicurazioni. Scelte corrette e lungimiranti in grado di spiegare la resilienza dei due istituti di credito. Focalizzarsi su servizi ad alto valore aggiunto per la clientela, in ogni settore economico, ha sempre pagato. Oggi più che mai, per le banche, questa potrebbe essere la bussola in grado di guidarle verso la risoluzione di molti dei loro problemi. E per chi già ha deciso di seguirla, gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.