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Elsa Fornero: "Fare le riforme è difficile, ma ne vale sempre la pena"

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Elsa Fornero racconta in un'intervista a Notizie.it l'importanza di avere il coraggio di fare le riforme in ambito economico, anche se impopolari.

Da quando ha lasciato la cattedra di professore ordinario di Economia politica presso la Scuola di Management ed Economia dell’Università di Torino, la Prof.ssa Fornero sta alternando la sua attività di ricerca e divulgazione con l’impegno per il dialogo civile, partecipando a eventi pubblici sui temi delle riforme e del dialogo intergenerazionale, nella convinzione che il rafforzamento della società civile rappresenti un caposaldo imprescindibile per la ripresa, non soltanto economica, del nostro Paese. In un’intervista per Notizie.it compie un viaggio nel cuore dell’Italia che vuole conoscere, discutere e approfondire aspetti importanti della nostra economia e della nostra società, le ragioni del nostro declino e l’importanza della nostra partecipazione all’Unione Europea.

L’intervista a Elsa Fornero

Per arrivare a pensare e poi scrivere una legge che porti a una riforma vera, necessitano interrogazioni che toccano discipline come l’antropologia, la sociologia, il diritto, la finanza, la tecnologia. Tutto questo va ad allungare i tempi, fa aumentare le discussioni e può complicare le operazioni e le decisioni. La spinta tecnologica ha innescato al contrario la volontà di risolvere ogni questione in tempi brevi (vedere anche i CdA nelle aziende). Nella società dei rischi, questo non può essere forse il rischio più grande? E cosa produrrebbe la velocizzazione di una riforma che solitamente dovrebbe abbracciare un arco di tempo molto lungo?

Le riforme non sono medicine amare somministrate da un medico cattivo che non ha a cuore gli interessi del paziente. Le riforme sono necessarie per affrontare sfide importanti che, volenti o nolenti, ci toccano da vicino, come la globalizzazione, l’invecchiamento della popolazione, la trasformazione tecnologica. Si tratta di processi complessi che investono in profondità la società e il sistema economico, che hanno conseguenze importanti di medio e lungo periodo e che comportano importanti costi e benefici potenziali.

Le riforme sono necessarie per adattare le strutture sociali ed economiche a questi cambiamenti e per cercare di rendere i benefici superiori ai costi. Il problema dell’accettabilità sociale delle riforme è principalmente dovuto allo sfasamento temporale di costi e benefici: mentre i primi sono immediati, i secondi sono futuri e quindi inevitabilmente incerti. In questa prospettiva, le riforme sono investimenti sociali e, come qualsiasi investimento, comportano sacrifici iniziali in vista di vantaggi futuri. Come ho scritto nel mio libro, per essere efficaci le riforme “devono vivere nella società”, essere cioè comprese e condivise, almeno negli aspetti fondamentali. In democrazia, ciò richiede il coinvolgimento dei cittadini, direttamente o attraverso i corpi intermedi e le parti sociali.

E, a sua volta, il coinvolgimento richiede informazione corretta, comprensione e formazione di base sugli aspetti principali delle riforme. Tutto questo percorso, necessariamente lungo, è anche politicamente impopolare, nel senso che troppo spesso la politica, prigioniera di scadenze elettorali sempre troppo prossime, preferisce scelte poco lungimiranti, che danno la possibilità di sbandierare vantaggi immediati e di tacere sui costi futuri, come avviene nel caso di un debito pubblico elevato, frutto di una spesa strutturalmente superiore alla tassazione, o di politiche che trascurano le conseguenze negative per l’ambiente di politiche industriali miopi.

Le riforme economiche sono necessarie per sostenere la crescita, l’occupazione e il reddito e per mantenere la sostenibilità di istituzioni importanti come il sistema previdenziale. Tuttavia, se esse sono presentate come inutili sacrifici per di più imposti da Paesi terzi (come nel caso dell'”austerità voluta dal governo tedesco”) i cittadini non riescono a condividerle, anzi le rifiutano e trovano facilmente orecchie politiche disposte a negare la necessità stessa delle riforme e magari a cancellare quelle già intraprese, così buttando alle ortiche i sacrifici da loro stessi già fatti.

Non è difficile vedere, pur nella semplicità di questa rappresentazione, le radici e la crescita del populismo, con la sua negazione di ogni complessità e trascuratezza degli interessi delle generazioni giovani e future, sotto-rappresentate nell’arena politica. E non è difficile vedere come il contrasto a questa involuzione e il recupero di scelte politiche più lungimiranti passi necessariamente attraverso un percorso di maggiore coinvolgimento dei cittadini, accompagnato da corretta informazione e da una adeguata conoscenza economico-finanziaria di base.

Senza questo percorso, aumenta la probabilità che il Paese si ritrovi in condizioni di emergenza finanziaria, come già avvenne nel 2011, quando la politica, incapace di trovare soluzioni, lasciò ai “tecnici” il compito ingrato di adottare con immediatezza misure impopolari, come la riforma del sistema previdenziale e quella del mercato del lavoro, da me firmate. In quel caso, data l’urgenza dell’intervento, il dialogo sociale per la condivisione delle riforme rappresentò un “lusso” che il governo non poté permettersi.

Il “Global playing field” (campo da gioco livellato) dice che bisogna dare a tutti i cittadini le stesse possibilità iniziali di successo e poi dall’altro lato garantire agli stessi una rete di protezione dai rischi adeguata. Sto osservando che tale campo da gioco per i giovani e le donne è sempre in salita e questo fa sì che lo sforzo sia maggiore e i risultati inferiori. In una economia che mira ad essere sana ed efficiente, ciò non può essere una regola. Secondo lei una riforma può prevedere per giovani e donne la creazione di un campo a parte agevolato? Se sì, come nelle due realtà?

Il terreno di gioco livellato è un concetto molto importante che guarda alle politiche di welfare non tanto (o non soltanto) nella prospettiva della compensazione, a posteriori, di danni subiti dalle persone nel corso della vita – come la perdita dell’occupazione, una disabilità, un livello insufficiente di risorse nella vita attiva e/o durante il pensionamento – ma cerca di valorizzare al meglio le potenzialità/opportunità individuali.

Schematizzando, possiamo rappresentare il ciclo di vita degli individui come la successione di una fase di istruzione/formazione professionale, seguita dalla fase attiva nella quale si lavora (o si dovrebbe lavorare), seguita ancora dalla fase di pensionamento (dobbiamo questo semplice schema all’unico premio Nobel italiano in Economia, Franco Modigliani).

In questa prospettiva, il livellamento del terreno di gioco presuppone anzitutto un welfare per l’infanzia in modo che tutti i bambini abbiano accesso agli asili nido, alle scuole dell’infanzia e, più in generale, a un’istruzione e a servizi sanitari adeguati; che non siano costretti a lasciare la scuola per mancanza di mezzi, che le scuole di periferia abbiano la medesima qualità di insegnamento e le stesse dotazioni informatiche di quelle del centro cittadino, e così via.

Lo schema presuppone inoltre che vi siano politiche di attivazione al lavoro tali da permettere a chi termina un percorso formativo di entrare rapidamente nel mondo del lavoro, così evitando che i giovani siano al tempo stesso fuori dall’istruzione e anche dal mondo del lavoro, come i cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training), di cui l’Italia ha il primato in Europa, con il 24 per cento dei giovani tra i 15 e i 29 anni in questa situazione, contro una media europea di poco superiore al 13 per cento (dati relativi al 2017).

Sempre con riferimento all’età attiva, il modello presuppone politiche attive per fare in modo che chi ha perso o ha dovuto lasciare il lavoro trovi un’occupazione il più presto possibile; ma anche il pagamento dei contributi da parte dello stato per fare in modo che la perdita di contributi non pregiudichi un’accumulazione di risparmio a fini previdenziali sufficiente a mantenere un tenore di vita adeguato durante il pensionamento.

Nei Paesi europei (ma nei Paesi Mediterranei, e quindi in Italia, più che altrove), questo schema di welfare è stato, bene o male, pensato e modellato per i maschi, essendo la sicurezza economica delle donne nel corso della vita affidata prevalentemente alla famiglia d’origine in gioventù e al marito nella vita adulta e anziana (motivo per il quale anche l’istruzione era considerata superflua).

Oggi questo modo di interpretare il ciclo di vita delle donne è per fortuna largamente superato, anche se permangono differenziazioni profonde, che per esempio si manifestano ancora in un gap retributivo sensibile, pure in presenza di un gap formativo oggi a vantaggio del genere femminile.

Le donne studiano, lavorano, vogliono essere valutate in base al merito e non alle appartenenze, vogliono parità di diritti e di opportunità, più che compensazioni a posteriori per discriminazioni insufficientemente contrastate a priori. Se questo è l’obiettivo, nella pratica, purtroppo, le cose sono ancora ben diverse e quindi qualche politica “risarcitoria” può essere non solo opportuna ma necessaria. In particolare, i giovani e le donne sono stati particolarmente colpiti dalla crisi e questo richiede politiche ad hoc che facilitino il loro (re)inserimento nel mondo del lavoro (com’è stato il caso per la garanzia giovani); garantiscano una minore precarietà occupazionale e di reddito; facilitino la formazione della famiglia e la nascita di figli; aiutino il lavoro delle madri e una maggiore parità tra genitori di doveri nei confronti dei figli piccoli.

In una parola, e guardando in particolare al nostro Paese, è importante che esso superi la distorsione culturale che l’ha portato nel tempo a interpretare il welfare in chiave prevalentemente previdenziale, e a lasciare poche risorse al resto delle politiche sociali, rivolte per l’appunto alla piena inclusione di giovani e di donne nell’economia e nella società.

Il metodo contributivo, perfezionato nel 2011, vedrà il suo pieno completamento nel 2050. Mancano ancora 30 anni e in questo arco di tempo tantissime cose potranno cambiare. Esiste un sistema che permetta a una singola riforma di essere flessibile e quindi aggiustabile gradatamente con il passare del tempo senza doverla stravolgere o eliminare? In tale senso è possibile far comprendere appieno anche il fatto che il sistema vigente impone una vita lavorativa buona, regolare e la politica debba dedicarsi molto di più a garantirla, magari senza facili scorciatoie?

La pensione (e l’ha bene spiegato proprio Franco Modigliani con la sua ipotesi del “ciclo di vita”) è normalmente il risultato del risparmio della vita lavorativa. Ciò è vero, oltre che per i fondi pensione privati, anche per il sistema previdenziale pubblico: anche se le leggi che regolano tale sistema sono disegnate e approvate da governo e parlamento, la pensione non è, in generale, il risultato della generosità dei politici bensì il frutto dei contributi versati nel corso della vita lavorativa.

Se un sistema economico non riesce ad assicurare a un’intera generazione una adeguata sicurezza economica nel periodo attivo, come si può pensare che basti una promessa politica a dare sicurezza economica nell’età anziana? La politica ha il dovere di aiutare le persone nei momenti di difficoltà (come nel caso della disoccupazione o dell’assenza dal lavoro per la necessità di assistere un famigliare) anche per evitare che tali situazioni si traducano, per mancanza di contributi, in una pensione troppo bassa nell’età anziana.

In questi casi, si parla di solidarietà, doverosa in un sistema pubblico. Quando però, come avveniva con la formula retributiva oggi in via di (lento) superamento, il calcolo della pensione finisce per avvantaggiare i più fortunati, ciò non configura solidarietà, bensì privilegio. La formula contributiva di calcolo della pensione asserisce molto semplicemente che il livello del beneficio dipende da tutti i contributi versati a tale scopo (“ogni euro versato conta”) e dall’età alla quale si accede al pensionamento: a parità di contributi a età più elevate corrispondono benefici più elevati perché è minore il periodo atteso di godimento. Il metodo è trasparente, compatibile con la solidarietà (per esempio, si possono incorporare le differenze nella gravosità del lavoro) e meno tendente ai privilegi.

È anche compatibile con la flessibilità, nel senso di consentire al lavoratore di scegliere – pur con certi vincoli – l’età alla quale cominciare a utilizzare il capitale (formalmente) accumulato durante la vita lavorativa. Per carriere lavorative “buone, cioè non troppo discontinue e adeguatamente retribuite, il rischio di dover lavorare “fin oltre i settanta anni” per una “pensione da fame”, come viene spesso paventato, è un allarme eccessivo che dovrebbe spingere la politica a occuparsi molto più di crescita economica e di occupazione che di garanzia pensionistiche valide dopo decenni.

Per effetto delle riforme già attuate (entro le quali non considero “quota cento” che è una controriforma parziale e limitata a tre anni della riforma del 2011), il nostro sistema è sostenibile e in futuro sarà anche sufficientemente flessibile per quanto concerne l’età di pensionamento, possibile tra le età 63 e 70, con corrispondente aumento di pensione al salire dell’età di uscita. Come tutte le istituzioni, il sistema deve essere monitorato ma non ha oggi bisogno di nuove riforme e, meno che mai di contro-riforme, per di più finanziate a debito, cioè messe a carico delle generazioni giovani, già particolarmente colpite dalla crisi.

Ogni sistema pensionistico deve fare i conti con la pesante eredità del passato. Oltre alle varie crisi finanziarie che si sono succedute ogni dieci anni dal dopoguerra, oggi abbiamo a che fare anche con l’obsolescenza rapida sia dei lavori (e dei salari) che delle generazioni. In proposito, sembra che il passaggio di testimone si sia interrotto e non sia più possibile fare una esatta quantificazione dei contributi versati e delle prestazioni ricevute (sia per sé che per gli altri in futuro). Lei ha una soluzione che consenta di sostituirsi al testimone e generare nuova ricchezza?

L’unico vero generatore di ricchezza è il lavoro. Il capitale e la tecnologia aiutano il lavoro a essere più produttivo, cioè a creare un più elevato “valore aggiunto” (ossia reddito) per ora di lavoro. La paura delle conseguenze negative, per il lavoro, delle “macchine” è una costante nella storia dell’industria ma la storia ha anche dimostrato che i costi di breve termine di innovazioni tecnologiche che sostituiscono macchine a lavoratori nei processi produttivi ha sempre generato, almeno nel medio termine, più vantaggi che svantaggi. Oggi siamo di fronte a un’ondata di innovazione particolarmente aggressiva sotto il profilo della sostituzione e nessun settore produttivo sembra sottrarsi alla necessità di passare a tecnologie “intelligenti” che “economizzano” sul lavoro.

Questa trasformazione avviene per di più in un periodo di globalizzazione nel quale la competizione tra le imprese è particolarmente agguerrita ed è più facile spostare la produzione dove i costi, incluso quello del lavoro, sono inferiori, con la conseguente tentazione per i governi di adottare politiche protezionistiche. Né si possono trascurare le sofferenze dei bilanci pubblici, soprattutto nei Paesi più indebitati, come l’Italia, che fanno fatica a trovare risorse per i sistemi di welfare e per gli investimenti. Nulla è facile in queste condizioni e nessuna politica dà con certezza risultati positivi, soprattutto non nel breve termine.

Per l’Italia è indispensabile, a mio avviso, mantenere l’aggancio con l’Europa, in modo serio e credibile e con coerenza tra affermazioni di principio e scelte concrete. Ciò anche in vista di un maggiore ruolo dell’Europa nelle politiche di welfare, come per esempio avviene, sia pure in misura insufficiente, con il sostegno del fondo sociale alla formazione e alle politiche attive del lavoro e come avverrebbe ancora di più con l’introduzione di uno schema europeo contro la disoccupazione, in particolare giovanile. Al di là della nostra solida presenza in Europa, il lavoro si favorisce con l’investimento, in capitale umano (istruzione, formazione professionale e politiche di life long learning), in capitale fisico (infrastrutture e nuove tecnologie) e in capitale sociale (istituzioni che funzionino meglio e ripristino un clima di fiducia e, come detto sopra, riforme per migliorare il funzionamento sia dei mercati, sia delle stesse istituzioni).

Nei mesi scorsi si è parlato molto di reintrodurre nelle scuole l’educazione civica. Oltre a questa materia ci vorrebbe anche l’educazione finanziaria per la gestione del patrimonio futuro. Queste due discipline porterebbero gli italiani ad acquisire una maggiore consapevolezza dal punto di vista sociale ed economico e ad avere (finalmente) un buon rapporto con la vita professionale e un nuovo rapporto con lo stato e le aziende. Cittadini a parte, secondo lei lo stato e le aziende sanno che il loro futuro e il loro prosperare e rimanere in vita dipendono molto da quella duplice consapevolezza? Se per esempio un singolo cittadino butta i soldi in investimenti sbagliati danneggia lo stato, la sua famiglia ma anche l’azienda per la quale lavora.

L’educazione finanziaria di base, anche detta alfabetizzazione finanziaria, è oggi una necessità. Così come, all’inizio del Novecento, si è ritenuto (peraltro non senza contrasti a livello politico) che saper leggere, scrivere e fare alcuni conti elementari fosse elemento imprescindibile della vita umana, oggi lo stesso si può dire di un bagaglio minimo di conoscenza economico-finanziaria. E ciò principalmente per due ragioni.

La prima è il più elevato grado di rischio cui le persone sono oggi soggette dal punto di vista economico: rischio di disoccupazione, di reddito, di insufficienza di risparmio, di cattivo impiego del risparmio stesso, con scarsa o nulla o addirittura negativa remunerazione dei fondi acculati (per esempio, per eccessiva esposizione a un rischio specifico, come avviene quando si investe prevalentemente in un’unica attività). O, se si ritiene che il rischio economico complessivo non sia più alto, è sicuramente maggiore la preoccupazione per le sue conseguenze sul benessere dei singoli e delle famiglie, ciò che induce a cercare di rafforzare gli strumenti individuali e collettivi di suo contenimento e di una sua più efficace distribuzione.

Il rischio complessivo nasce dalla molteplicità e dall’interazione potenzialmente negativa di rischi singoli: se si perde il lavoro, è verosimile, per esempio, che cresca il rischio di ammalarsi, ciò che a sua volta peggiora il rischio di reddito. Proprio per fronteggiare questi rischi esiste, almeno in Europa, lo stato sociale (il welfare state) che però non può provvedere a tutto. Sono anche necessarie un po’ di prudenza e un po’ di lungimiranza individuali, che proprio l’educazione finanziaria di base può incoraggiare.

Non è necessario, e neppure desiderabile, che tutti diventino esperti di economia e di finanza ma è importante sapere almeno quanto basta per evitare truffe o errori che possono avere effetti negativi duraturi e compromettere la sicurezza economica del soggetto. Per esempio, partecipare a un fondo pensione di categoria, quando disponibile, è scelta non soltanto conveniente per ragioni fiscali e per non perdere la quota versata dal datore di lavoro ma anche per usufruire, in un futuro magari lontano, di una discreta integrazione alla pensione pubblica.

L’alfabetizzazione insegna alle persone a comporre un budget, a controllare i costi di certe forme di impiego, a non confondere un tasso di interesse nominale con il corrispondente tasso reale (netto, cioè, del tasso di inflazione); a tener conto degli effetti dell’inflazione sul potere d’acquisto del proprio reddito. Semplici concetti che riducono il rischio di errori nelle scelte o di frodi perpetrate da qualcuno che sfrutta l’ignoranza finanziaria delle persone.

La seconda ragione ha a che fare con le riforme economiche delle quali ho parlato prima. Le riforme sono importanti per ridurre l’impatto negativo di cambiamenti strutturali profondi ma se non sono correttamente intese dalla cittadinanza, tendono a essere rifiutate e comunque a non produrre effetti. L’alfabetizzazione finanziaria aiuta i cittadini a meglio comprendere le ragioni e gli elementi essenziali delle riforme e ne rende più agevole il percorso, a cominciare dal minor costo politico delle stesse. In questo senso, l’alfabetizzazione finanziaria è elemento imprescindibile di cittadinanza e, come tale, promotrice di una migliore qualità della politica e della stessa democrazia.

Siamo in una nuova Era che sta mettendo in discussione il sistema capitalistico, tuttavia è l’unico sistema che ci ha fatto crescere e molto in poco tempo. Abbandonarlo sarebbe forse deleterio e pericoloso per molti motivi. Dall’altra parte però bisogna lavorare di più per garantire l’equità tra i cittadini. Questa parola che piace molto è spesso però scambiata per redistribuzione equa dei profitti, ma non dei rischi. Vi è secondo lei un modo o modello per garantire a una società una crescita armoniosa mettendo in accordo l’equità dei contributi, dei profitti e dei rischi?

Il problema della crescente diseguaglianza è oggi al cuore dell’insoddisfazione generale nei confronti del sistema capitalistico, dell’economia di mercato e dell’incapacità che i governi hanno dimostrato, anche perché spesso in contrapposizione gli uni con gli altri, di adottare politiche fiscali e sociali in grado di contenere l’aumento della diseguaglianza.

Occorre però essere chiari in proposito: la diseguaglianza è aumentata pressoché ovunque all’interno dei singoli Paesi, e sicuramente meno in Europa e molto di più negli Stati Uniti. La disuguaglianza dei redditi medi tra Paesi è invece diminuita, riducendo la distanza tra paesi ricchi e poveri. In altre parole, Cina, India e diversi Paesi emergenti sono oggi in media meno distanti dai Paesi ricchi di qualche decennio fa, anche se l’aumento del reddito e della ricchezza è avvenuto al loro interno in modo concentrato tra pochi soggetti piuttosto che secondo un’equa distribuzione tra le diverse categorie o classi sociali. In estrema sintesi, ciò è dovuto sia all’assenza del terreno di gioco livellato di cui ho parlato prima, sia all’inefficacia delle politiche di istruzione, di welfare, ma anche fiscali, del lavoro, ambientali e industriali di migliorare, nel senso dell’equità, la distribuzione dei redditi e della ricchezza prodotta dal mercato.

Per alcuni questa è la dimostrazione che il mercato non funziona e che le politiche di regolazione degli stessi sono insufficienti, anche se non è chiaro dove cercare, e soprattutto, trovare sostituti. Personalmente sono attratta dall’idea dell’economia sociale di mercato: un’economia basata sul concetto di iniziativa privata soggetta a regole, di livellamento del terreno di gioco, di apertura al “Resto del Mondo” (anziché di chiusure e di politiche protezionistiche), di inclusione sociale, di sensibilità ai divari e quindi di fiscalità progressiva e non proporzionale, di rafforzamento del “capitale sociale”, di partecipazione dei lavoratori al governo delle imprese e di partecipazione dei cittadini alle scelte pubbliche. Un mix non dogmatico bensì pragmatico di libertà individuali, di buon senso e di attenzione ai deboli, nella consapevolezza che il sistema perfetto non esiste e che nelle scelte sociali bisogna sempre imparare dagli errori di cui la storia è maestra.