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Il Coronavirus fa scappare gli imprenditori dall'Italia

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Aumenta esponenzialmente il numero di imprenditori che trasferiscono la propria attività a Dubai a causa della situazione di crisi dovuta al Coronavirus.

Non si sentono più rappresentati dallo Stato italiano né come contribuenti né come imprenditori. Specialmente, adesso, durante la pandemia da Coronavirus. Con una crisi economica mondiale incombente, interi Stati nel caos, un ordine economico mondiale da riscrivere totalmente e il Pil nazionale in picchiata, molti investitori stanno pensando di mettere al sicuro i propri capitali in luoghi felici (criminalità è al 4%, benzina a 16 centesimi al litro, zero tasse).

La fuga degli imprenditori italiani a Dubai causa Coronavirus

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Secondo i dati elaborati dalla società Falcon Advice con sede a Padova e a Dubai, che di mestiere aiuta le aziende italiane a stabilirsi negli Emirati Arabi Uniti, “esiste un trend sempre più allarmante che riguarderà presto le casse dello Stato – dichiara Daniele Pescara, ceo di Falcon Advice -. Incrociando i dati nei primi 4 mesi del 2020 abbiamo registrato un 200% di richieste in più rispetto ai primi 4 mesi del 2019, che si sono tramutati per noi in 140 milioni di dollari di investimenti italiani collocati all’estero. Perlopiù si tratta di grandi strutture, solvibili e indipendenti, che si possono permettere di decidere dove proseguire il proprio percorso imprenditoriale e/o produttivo. E il loro futuro non lo vedono più in Italia”

Non sembrano preoccupati i grandi colossi che con proverbiale lungimiranza in questi ultimi anni – aggiunge Pescara (alcuni già nei primi mesi del 2020) – “hanno prontamente delocalizzato all’estero. È il caso del gruppo italiano Campari che i primi di aprile 2020, ufficializza lo spostamento della sede legale in Olanda. È l’ennesimo caso di holding italiane che lasciano il Belpaese. Da Fca a Mediaset passando per Ferrero (in Lussemburgo) e Cementir”.

Alcuni dati di Falcon Advice

Secondo i dati elaborati dalla Falcon Advice è verosimile che entro quest’anno il numero complessivo delle aziende artigiane scenderà di almeno 300mila unità: “Vale a dire che il 25% delle imprese artigiane presenti in Italia chiuderà i battenti”, spiega Pescara. Si tratta di almeno 7 miliardi di euro.
Ed è per questo che molti italiani sono divenuti, ancor più in questo periodo, “globetrotter del fisco”, ammaliati dalle sirene della tassazione favorevole di Dubai, divenuta un hub per coloro che subissati dal fisco italiano e dall’assenza di aiuti in questo momento da parte del governo, cercano di rifugiare i propri capitali nelle famigerate free zone, delle aree fiscali speciali. Queste ultime afferma Pescara, esistono dal 1985 e ad oggi se ne contano più di 50, divise per settore. Attualmente sono oltre 200.000 (di cui almeno 5mila italiane) le aziende registrate solamente a Dubai, destinate a salire, ma gli Emirati Arabi Uniti sono anche “Abu Dhabi, Fujaira, Ajman, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Quywayn. Se dovessimo contare anche le licenze registrate nel resto dell’emirato – conclude Pescara – la cifra approssimativa raddoppierebbe”.

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In fondo bastano (almeno) 20mila euro e qualsiasi azienda italiana può iniziare a camminare nel caldo deserto degli Emirati Arabi Uniti. E per un anno non ci saranno altri grattacapi: 0% tasse personali, 0% tasse societarie, no al commercialista, no ai sindacati, no ai bilanci. Niente di più lontano dal 70% di tasse del nostro Paese. E per questo molti imprenditori con l’acqua alla gola ci stanno pensando seriamente. Il primo ministro Sheikh Mohammed bin Rashid al Maktum basa su sei pilastri il futuro del Paese: “Istruzione, ambiente, sanità, giustizia, società e competitività”. Per questo motivo l’interessamento per Dubai continua ad aumentare.

Pescara, ceo di Falcon Advice, che da 8 anni lavora a stretto contatto con i paesi arabi e che dal 2017 ha fondato la sua società a Dubai con la mission di aiutare le eccellenze italiane a spostare i propri investimenti e le proprie sedi negli Emirati Arabi Uniti, ha visto cambiare molto le cose negli ultimi tempi. “Le free zone esistono da più di 35 anni al solo scopo di attrarre eccellenze da tutto il mondo – spiega il finanziere veneto – non solo in termini di brand, ma anche di know how e mindset in tutti i settori. Con lungimiranza gli sceicchi hanno saputo diversificare le loro entrate, non dipendendo oggi solo dal petrolio”. Che pur resta la loro più grande fonte di guadagno anche con il Coronavirus: entro il 2030 arriveranno a 5 milioni di barili di greggio al giorno. Uno dei progetti futuri, per esempio, che verrà realizzato entro il 2050, mira a trasformare Dubai in un centro globale di energia pulita. Aumentare la porzione di energia rinnovabile a Dubai per ridurre le emissioni di carbonio del 16% entro il 2021, quindi trasformare la città del golfo nella realtà con la più bassa emissione di carbonio al mondo.

Pescara ha visto molte aziende sull’orlo del fallimento, a causa delle tasse italiane e della burocrazia che le strangola, riprendere quota grazie agli investimenti fatti a Dubai. “L’Italia è un Paese tecnicamente fallito – dice Pescara – e dopo la pandemia lo sarà ancora di più, che non può più aiutare chi lavora e chi produce. L’unica salvezza è fuggire all’estero”. Per questo motivo per l’anno fiscale 2020, il primo ministro Mohammed bin Rashid ha firmato la legge sul bilancio pubblico n.12 del 2019, con una spesa di 18 miliardi di dollari, rendendola la più grande nella storia di Dubai.

Quanto costa il processo di trasferimento?

Aprire una società in una free zone ha però un costo. “Dipende dalla tipologia di servizio offerto e dall’operatività che vuole avere il cliente – spiega Pescara -. Una società di trading avrà caratteristiche diverse da una consulting, ma per essere seguiti da professionisti accreditati il servizio base parte da circa 20mila euro e noi garantiamo lo 0% di tasse personali, lo 0% tasse societarie, non c’è bisogno del commercialista, zero sindacati, e niente bilanci. Le Pmi rappresentano oltre il 94% di tutte le società che operano negli Emirates, con il 73% nel settore all’ingrosso e al dettaglio, il 16% nel settore dei servizi e l’11% nel settore industriale. Il numero di aziende classificate come Pmi supera le 350mila unità e oltre l’86% della forza lavoro nel campo privato rappresenta il 60% del Pil”.