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Il Recovery Fund può essere il nostro secondo piano Marshall

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L’Italia, già fanalino di coda prima dell'emergenza coronavirus, ora paga le solite carenze strutturali: serve un nuovo piano Marshall.

Prepariamoci all’autunno più difficile della storia repubblicana: l’Italia non è mai stata in una situazione così drammatica dalla fine della seconda guerra mondiale, quando la ricostruzione di un paese devastato fu avviata dai sussidi a fondo perduto degli americani. Non ci sono le macerie di una guerra, ma più di 35mila morti lasciati sul campo dalla prima ondata pandemica, l’incertezza del futuro e le stime del Pil 2020 che segnano un allegro -11,2%. Da febbraio 2020 il livello di occupazione è diminuito di oltre mezzo milione di posti, nonostante Cig e blocco dei licenziamenti. Per l’Istat un’azienda su tre potrebbe chiudere, per Banca d’Italia un terzo delle famiglie italiane ha risparmi solo per tre mesi, il 40% degli italiani ha difficoltà con le rate del mutuo e per l’Ocse la disoccupazione salirà al 12,4% entro la fine dell’anno.

Lo scenario che ci aspetterà è questo, una dimensione economica mai vissuta prima. È vero che la pandemia ha colpito tutti, è vero che tutti gli stati dell’eurozona avranno il segno meno, è vero che anche Usa e Cina traballano sotto i colpi dell’evento che sta cambiando la nostra epoca, ma è anche vero che l’Italia era già fanalino di coda prima dei coronatimes e ora paga le solite carenze strutturali, lascito della prima, della seconda Repubblica e in attesa della terza forse abortita prima del parto.

I nuovi poveri

In piazza Sant’Eustachio a Roma, in pieno centro, don Pietro Sirugani mi fa entrare nella mensa che da anni allestisce per i poveri che arrivano da varie zone della città e mi dice che negli ultimi mesi il numero degli italiani è notevolmente aumentato. “I poveri sono tutti poveri” dice tanto per ribadire il concetto a chi fa fatica ad afferrarlo. Ogni giorno ci sono tre turni e “mentre prima avevamo molti senzatetto adesso vengono da noi persone che hanno perso il reddito o altre che fanno lavori stagionali, interinali, a intermittenza”.

A Roma, già durante il lockdown, diversi supermercati hanno adottato l’iniziativa della “spesa sospesa”: si possono acquistare generi alimentari per gli enti di beneficienza che li consegneranno ai poveri o direttamente per le famiglie in difficoltà del quartiere. La ragazza che mi serve il caffè nel bar di fronte ai Fori Imperiali è agitata perché sta provando a chiamare l’Inps. Il gestore del bar mi confida che ha ricevuto solo la mensilità di marzo di cassa integrazione e aspetta quelle di aprile e maggio. Con un affitto da pagare e due bambini a casa è costretta a farsi aiutare, mentre chi gestisce il bar ha potuto far rientrare al lavoro solo 4 persone su 8, a causa del calo di turisti e clienti.

Il mercato dei turisti stranieri al momento quasi fermo sta portando a chiudere anche attività e luoghi di lavoro impensabili, come le boutique dell’alta moda. Dopo Gucci in via Borgognona, anche LeoncinO in via Condotti sta per abbassare la serranda. Molti si stanno spostando sulle vendite online ma il timore è che dopo il blocco dei licenziamenti anche in questo settore ci possa essere un’emorragia di posti di lavoro. Nelle scorse settimane Papa Francesco ha istituito un fondo destinato ad aiutare le famiglie in difficoltà. I volontari di Nonna Roma, un gruppo comunitario, prima della pandemia consegnavano 300 pacchi alimentari, ora fanno consegne a 7500 famiglie. Sono i “nuovi poveri” causati dalla pandemia di coronavirus che la Coldiretti, l’associazione degli agricoltori, stima essere circa un milione di italiani. Si aggiungeranno al 7,7% della popolazione, secondo il Censis la percentuale di individui considerati in condizione di povertà estrema, perché non hanno un reddito sufficiente per garantirsi un paniere di beni giudicati di prima necessità: in valore assoluto sono 4.593.000.

Un Paese in ginocchio

Le associazioni caritatevoli hanno registrato un aumento del 40% delle richieste di aiuto. Sempre secondo Coldiretti, le situazioni di maggiore criticità si registrano nel Mezzogiorno, con il 20% degli indigenti che si trova in Campania, il 14% in Calabria e l’11% in Sicilia ma situazioni diffuse di bisogno alimentare si rivelano anche nel Lazio (10%) e in Lombardia (9%) dove più duramente ha colpito l’emergenza sanitaria.

Tra loro, ci sono i lavoratori con “contratto a zero ore”, gli invisibili: immersi in attività di economia informale, sommersa, senza regolarizzazione. Sono stranieri ma anche italiani: fanno assistenza domiciliare, servizi domestici, magari si occupano dei nostri cari. Queste persone se non lavorano, non guadagnano. E se si ammalano o si scoprono positive, sono costrette tragicamente a scegliere tra vivere in povertà o rischiare di contagiare gli altri. C’è poi il campo di chi il lavoro in regola lo crea per sé e per gli altri. Solo il 30% delle aziende ha finora ricevuto i finanziamenti promessi durante il blocco e molti imprenditori restano in attesa dei prestiti bancari sostenuti dallo stato.

Recovery Fund, verso la fine dell’austerità

Limitare l’impatto economico della pandemia sarebbe stato impossibile anche per i più grandi statisti della storia dell’umanità e chi afferma il contrario sa di strumentalizzare. Tuttavia il drammatico italiano stavolta con pochi risvolti da commedia presenta anche piani sequenza di orgoglio e un’occasione che probabilmente non tornerà più. L’orgoglio di essere stata la prima democrazia al mondo che ha subìto e ha reagito all’epidemia. Presi in giro nelle prime settimane come i soliti italiani incapaci di gestire, abbiamo dettato la linea del contenimento, fatto prima quello che gli altri sono stati costretti a fare dopo e la solidarietà di questi giorni della Merkel e di Macron, sicuramente interessata in un’economia integrata, ne è la dimostrazione.

L’occasione è la trattativa cruciale europea, conclusa nella notte tra il 20 e il 21 luglio, che potrebbe segnare l’inizio della fine dell’austerità e di una politica cieca, soffocante durata almeno dieci anni. Per la prima volta l’Unione europea apre alla prospettiva di emettere titoli di debito comune sul mercato, prospettiva sostenuta proprio dalla Germania che per anni si era opposta.

Verso un nuovo piano Marshall

Ma, ora che l’accordo è stato raggiunto, stavolta spendiamoli bene i denari, senza temere il monitoraggio della commissione, e investiamo in tutto quello che per scelta politica, e quindi degli elettori, abbiamo volutamente tralasciato per decenni. Sanità, cura del territorio, infrastrutture utili e che possibilmente stiano in piedi, ricerca e luoghi per la didattica e la formazione magari con i soffitti che non cedano, fine del precariato, riconversione ambientale vera e non farlocca, una rete digitale degna di un paese civile e abbassiamo le tasse facendole pagare a tutti.

Potrebbe essere il nostro secondo piano Marshall e sarebbe l’ultima occasione per rigenerare un paese ormai in declino.