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Chi era Emanuela Loi, la poliziotta uccisa nella strage di via D'Amelio

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Originaria della Sardegna, Emanuela Loi è stata uno dei membri della scorta del giudice Paolo Borsellino rimasti uccisi nella strage di via D'Amelio.

Aveva 24 anni e tutta la vita davanti quando venne uccisa in via D’Amelio mentre faceva il suo lavoro: proteggere il giudice Paolo Borsellino. Un compito non facile, rifiutato da molti agenti, ma che lei ha svolto con entusiasmo fino all’ultimo. Emanuela Loi è morta in divisa e oggi è ricordata per essere stata la prima donna poliziotto uccisa in servizio in Italia.

Poliziotta a 19 anni

Era il 1988 quando Emanuela Loi e la sorella Claudia decisero di dedicare la propria vita alla divisa. Manu, come la chiamavano familiari e amici, aveva appena conseguito il diploma magistrale e aveva le idee chiare. Si presentò al concorso per diventare poliziotta e lo superò, a differenza della sorella. Iniziò l’addestramento nella sua Sardegna, a Sestu, con l’entusiasmo di una ventenne. La sua giovane età, il suo sorriso e i suoi capelli rossi, ribelli, la allontanavano dalla figura del poliziotto nell’immaginario comune, ma Emanuela non si diede per vinta e dopo due anni arrivò a indossare con orgoglio la divisa.

I pregiudizi

Oggi sono molte le donne che popolano il corpo di polizia, ma diverso era il clima nei primi anni Novanta. Quello dell’agente è un lavoro duro, sostenevano in tanti, sia fisicamente che psicologicamente: non è adatto a una donna. Emanuela Loi ha dovuto combattere con affermazioni come questa, ma non si è mai lasciata scoraggiare e ha proseguito per la propria strada, che l’ha portata fino a Palermo.

Il servizio di scorta

Negli anni Novanta, Palermo era sinonimo di mafia ma anche di eccellenza nella lotta alla criminalità organizzata. Emanuela vi sbarcò nel 1990 e venne scelta come agente di scorta. I genitori raccontarono che non si fece prendere dal panico e accettò la nomina con serenità, perché quello era il suo lavoro e lo avrebbe svolto fino alle estreme conseguenze. Durante il servizio non ha mai rivelato alla famiglia chi stesse proteggendo, ma dalle carte è emerso che si trattava di Arnaldo La Barbera, capo della squadra mobile di Palermo.

Un fine settimana di metà luglio, il nome di La Barbera venne sostituito con quello di Paolo Borsellino. Accettare l’incarico non era scontato. Era ancora aperta la ferita della morte di Giovanni Falcone, ucciso a Capaci insieme alla moglie Francesca Morvillo e alla sua scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro). In molti tra gli agenti palermitani speravano, più o meno segretamente, di non finire mai nella lista di poliziotti chiamati difendere il secondo grande protagonista dell’antimafia siciliana. Nessuno voleva camminare a fianco del magistrato che drammaticamente si definiva “un morto che cammina”.

L’attentato

Era il 19 luglio 1992, una domenica come tante altre a Palermo. Emanuela e gli altri agenti della scorta accompagnarono Paolo Borsellino in via Mariano D’Amelio, dove si trovava l’abitazione della madre del magistrato. L’ordigno piazzato da Cosa nostra esplose alle 16.58, uccidendo il giudice e i poliziotti, che non poterono fare nulla per impedire l’attacco. Il corpo di Emanuela fu ritrovato tra le fiamme, insieme al suo distintivo. Ma la ragazza non è morta invano.

“Consapevole dei gravi rischi cui si esponeva, assolveva il proprio compito con grande coraggio e assoluta dedizione al dovere”, così la descrive la medaglia in suo onore. “Barbaramente trucidata in un proditorio agguato di stampo mafioso, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni”.