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La folle ingenuità di chi giudica il volontariato

Silvia Romano volontaria rapita Kenya

Gli insulti a Silvia Romano, la volontaria rapita in Kenya, rivelano l'ipocrisia di una società che volta le spalle anche ai suoi membri migliori.

Ricordo la sensazione che ho provato quando sono scesa dall’aereo e ho toccato il suolo dell’aeroporto di Nairobi come volontaria. Era il 2016 e avevo 22 anni. Mi sembrava di vivere un sogno – per quanto retorico possa sembrare. Sentivo di avere infinite opportunità e tutta la vita davanti. Mai, neanche per un attimo nel mese trascorso in Kenya, ho immaginato che qualcosa sarebbe andato storto e che un gruppo di uomini armati mi avrebbe rapito. Di certo non lo immaginava neanche Silvia Romano. Nella valigia di chi parte ci sono tante cose. Si può discutere se ci sia, tra queste, anche l’ingenuità, la visione del mondo entusiasta di una ragazza appena ventenne. Quella “energia pura, ingenua e un po’ folle” di cui molti hanno parlato e di cui si è fatto alfiere Massimo Gramellini dalle colonne del Corriere.

Silvia Romano coi bambini

La presunta ingenuità del volontario

Non è mia intenzione difendere il volontariato visto come un salto nel vuoto da compiere a occhi chiusi senza sapere dove o come si atterrerà. Sopratutto quando a partire sono giovani e giovanissimi. Ci vuole, prima di tutto, preparazione e responsabilità. Ma Silvia Romano non è salita su un volo verso un Paese in guerra e ad alto rischio. È vero che ogni viaggio comporta dei pericoli, ma è altrettanto vero che il Kenya è uno degli Stati dell’Africa orientale considerati più sicuri per i cooperanti internazionali. Non compare sulla lista di Paesi a rischio stilata dall’Unità di Crisi della Farnesina e i rapporti tra le tribù che abitano il suo territorio sono, generalmente, pacifici.

Silvia Romano in Kenya

Il fantasma della giovinezza?

Vorrei chiedere a Silvia Romano cosa l’ha spinta a imbarcarsi su quel volo. Sono certa che le sue motivazioni sono numerose, forse confuse, e che tra di esse c’è, ovviamente, il desiderio di aiutare gli altri. Perché se c’è qualcosa che accomuna tutti i volontari è l’illusione di poter cambiare le cose. Silvia non era un medico, non era in Kenya per salvare vite in un ospedale da campo. Non aveva il compito di costruire case e strade o di portare acqua pulita a chi non ne ha. La sua missione era essere lì, tra i bambini, a fare la sua parte invece che ingrossare le fila degli “sdraiati” di casa nostra. Era in Africa per scoprire com’è quella “casa loro” di cui molti parlano, qui in Italia, nella sicurezza di un Paese dove guerra e povertà sono, quasi sempre, solo parole provenienti da un’altra epoca, da un altro mondo.

Sbaglia chi vede in questa urgenza di partire, fare e vedere solo l’entusiasmo dei vent’anni. Silvia non è il “fantasma della propria giovinezza“, per citare nuovamente Gramellini. È un esempio del desiderio di uscire dalla bolla della propria quotidianità, di portare un aiuto (piccolo o grande che sia) a chi è meno fortunato, di conoscere culture e mondi nuovi. Di essere migliore. Che tristezza, quindi, se tutto ciò è destinato a terminare con i vent’anni. Senza contare che non si spiegano, allora, i volontari “adulti”, professionisti e non, in giro per il mondo. Cosa spinge in Africa persone come Giobbe Covatta, diventato testimonial della onlus Amref nel 1994, quando aveva ormai 38 anni? Contagiando con il suo entusiasmo anche moglie e figlia, per di più: irresponsabile tra gli irresponsabili?

Silvia Romano laurea

La gogna mediatica

È stata chiamata “frustrata”, “disturbata mentale”, “l’ennesima oca giuliva che poteva stare a casa e aiutare gli italiani”. Hanno scritto che se l’è cercata, che “sapeva e doveva sapere che i rischi ci sarebbero stati. Nella vita ogni scelta ha una conseguenza e bisogna capirlo in tempo, se si è in grado”. E ora che è nelle mani di uomini armati, il tribunale del web ha emesso una sentenza: “Lasciatela lì, se è lì che è voluta andare”. Perché l’alternativa si paga a caro prezzo, letteralmente: “Quanto ci costerà farla tornare a casa sua per sempre ma con obbligo di dimora e firma?”.

Silvia non è una sprovveduta, una Cappuccetto Rosso sperduta nella foresta. Quella di novembre era la sua seconda missione in Kenya. La prima, ad agosto, si era conclusa nel migliore dei modi e non aveva fatto altro che alimentare la fiamma che l’aveva spinta in Africa la prima volta. Quell’orfanotrofio di Likoni le ha aperto occhi e cuore. È difficile credere che non si sia mai interrogata su cosa poteva capitarle laggiù; eppure, è partita comunque. Una decisione per cui non molto tempo fa sarebbe stata elogiata, indicata come un modello da seguire, un esempio di coraggio e virtù. Oggi, invece, il suo gesto è la peggiore delle colpe e una ragazza di 23anni è messa alla gogna mediatica. Rivelando l’ipocrisia di una società di “buoni borghesi”, impaurita e vile, che volta le spalle persino ai suoi elementi migliori.

Volontaria orfanotrofio Kenya