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Usa, protesta sui binari di minatori senza paga: "Fermiamo il carbone"

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"Senza paga, non ce ne andiamo": con questi cartelli i minatori protestano sui binari, bloccando un treno carico di carbone

Il 3 marzo del 1985, un congresso straordinario del sindacato dei minatori del Regno Unito votò per porre fine a uno degli scioperi più lunghi e famosi della storia. I manifestanti si opponevano alle decisioni del governo conservatore di Margaret Thatcher. Così, alcuni giorni dopo, i minatori della maggior parte delle regioni che avevano aderito allo sciopero ripresero i loro estenuanti lavori. Quasi dimenticato l’anno di lotte che avevano portato avanti e che spesso erano state violentemente represse. Molte donne vi presero parte, ma in molti rimasero delusi. Il sindacato, infatti, ne uscì molto indebolito e Margaret Thatcher, da poco rieletta per un secondo mandato come primo ministro, ebbe la meglio su quello che definiva “il nemico interno”. A distanza di più di 30 anni, anche negli Usa i minatori cominciano a manifestare il proprio malcontento. Nella contea di Harlan si ricordino le violente proteste negli anni Trenta e Settanta, ma da tempo non si vedevano i lavoratori organizzarsi in maniera tanto ferrea. Persino il presidente Trump è intervenuto sulla vicenda.

Usa, lo sciopero dei minatori

“No Pay We Stay”, cioè: “Senza paga, non ce ne andiamo”. Così si legge sui cartelli sventolati da alcuni minatori che hanno bloccato i binari della ferrovia di Cumberland, dove sono fermi da oltre tre settimane. I minatori, così facendo, stanno impedendo a un treno carico di carbone di procedere. Si tratta di dipendenti della Blackjewel. La compagnia, informa il Corriere della Sera, impiegava oltre 1.000 persone in quattro stati della regione degli Appalachi. In Kentucky, teatro della protesta, in Wyoming, Virginia e West Virginia. La ditta ha dichiarato bancarotta senza pagare gli ultimi stipendi.

I minatori protestano fermi e decisi, affinché si abbia l’assoluta certezza che i ricavati della vendita del carico vadano a loro e non ad altri creditori. Sono partiti in 5, poi la protesta si è estesa. Si sono uniti colleghi, concittadini, sindacalisti e attivisti.

“Fa piuttosto caldo qua fuori. E poi abbiamo avuto pioggia. Caldo e umido, appiccicoso. Ma siamo minatori e siamo abituati a condizioni difficili. Come quando siamo laggiù in miniera, ci sosteniamo l’un l’altro”. È la voce di Chris Lewis, uno dei volti della protesta. Chris ha 44 anni, 20 di questi li ha passati in miniera, racconta ancora il Corriere della Sera: “La mia famiglia ha avuto minatori dal 1700, è una cosa che mi scorre nelle vene”.

Il motivo della protesta

Tra licenziamenti e chiusure, la ditta Blackjewel appare al catafascio. Tra le ragioni del fallimento elenca la domanda in calo e i maggiori controlli. Il problema è che i lavoratori hanno scoperto della bancarotta e della chiusura il giorno stesso in cui sono stati mandati a casa. Per loro nessun compenso: nelle loro tasche non è mai arrivata la paga delle ultime 3 settimane. In media ognuno di loro è in credito di oltre 4.200 dollari, riporta la storica testata di via Solferino. A tal proposito, Jeffrey Willig, 40 anni e padre di 6 figli, ha detto al New York Times: “Non è molto diverso dal rapinare una banca”.

Alla luce della scorrettezza e dello scarso rispetto dimostrato nei loro confronti, i primi cinque minatori hanno preso l’iniziativa, decidendo di bloccare il treno. Il carico è stato già venduto per il valore di un milione di dollari.

Usa, l’intervento dei politici

La vicenda non ha lasciato indifferente la politica nazionale. Così il candidato socialista alle primarie democratiche Bernie Sanders ha inviato 18 pizze formato maxi. E pare non sia stato il primo gesto solidale registrato dalla locale Pizza Hut.

Anche il presidente Donald Trump si è mosso per i minatori di Cumberland, negli Usa. Il ministero del Lavoro, infatti, ha congelato la consegna del carico. BlackJewel ha promesso che si impegnerà a realizzare i dovuti accordi per garantire ai lavoratori il ricavato della vendita. Nel frattempo un’altra società ha comprato le miniere e promesso di contribuire ai rimborsi. Eppure, almeno per il momento, le cave restano chiuse e i soldi non sono ancora arrivati, né dai vecchi né dai nuovi proprietari.