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Crisi Iran Usa, perché non scoppierà la terza guerra mondiale

Corteo funebre Soleimani

Nonostante gli allarmismi per la crisi fra Usa e Iran, la terza guerra mondiale non scoppierà e l'Italia e l'Europa non hanno da temere, a meno che lo Stato Islamico non voglia colpire per godere in mezzo ai due litiganti.

Sono passati giorni e la Terza Guerra Mondiale non è scoppiata, anche se su Twitter la tendenza è “Iran war” e qualcuno ha scomodato perfino Nostradamus. Il fatto è che il mondo non è più quello che abbiamo studiato alle scuole elementari: un colpo di pistola a Sarajevo e scoppia il massacro della Prima Guerra Mondiale. Quella a cui stiamo assistendo è una lunga partita a scacchi con una scacchiera spesso insanguinata, ma nessuno dei due giocatori vuole mandare a monte la partita o ribaltare il tavolo.

Perché non scoppia la Terza Guerra Mondiale

Non vuole la guerra totale Trump, a cui le tensioni in un anno di impeachment e campagna elettorale fanno comodo. È vero, fino a ieri aveva usato Soleimani come alleato nella lotta contro lo Stato Islamico e adesso lo ha fatto ammazzare, ma l’imprevedibilità nelle crisi internazionali a volte è una virtù.

Non vuole la guerra totale l’Iran che ha esteso la sua influenza in Medio Oriente grazie all’arma segreta di cui Soleimani era maestro, vale a dire la guerra simmetrica, che non prevede lo scontro totale ma le manifestazioni, gli attentati, le cellule e le masse.

Uno stato che deve anche fare i conti con lo strangolamento dell’economia dovuto alle sanzioni, che hanno ridotto dell’80% le esportazioni petrolifere, e che continuerà ad aumentare le tensioni nei paesi in cui già conta. Tra questi l’Iraq, dove venne zittita quella Piazza Tahrir che aveva protestato proprio contro l’onnipresenza iraniana al costo di 600 morti.

Aumenteranno le tensioni sicuramente nello Yemen e probabilmente anche in Libano. Ma non ci sarà una guerra mondiale, anche perché attorno c’è un quadro abbastanza pasciuto e soddisfatto.

La silenziosa soddisfazione per la morte di Soleimani

Gli unici a brindare apertamente alla morte di Soleimani sono stati i caschi bianchi dei ribelli siriani, già candidati al Premio Nobel per la Pace, che hanno visto nella morte del generale la morte dello strangolatore di Aleppo.

Per il resto, però, molta contenuta e silenziosa soddisfazione. Non è naturalmente insoddisfatto Netanyahu da Israele, a cui la crescita delle tensioni, interne ed esterne, fa dimenticare alcuni inciampi. Va ricordato però che Quds, l’unità speciale che Soleimani presiedeva, in fondo vuol dire Gerusalemme.

Non è insoddisfatto il nemico storico dell’Iran, l’Arabia Saudita, ma neppure il suo alleato più fedele Assad a Damasco, che potrà affrontare il dopoguerra emancipandosi dall’ombra di un ingombrante padrino come Soleimani.

E noi? L’Europa che sta a guardare e che si preoccupa, e che predica inascoltata? Da un punto di vista strettamente domestico forse non c’è da preoccuparsi perché la rete del terrore, quella delle cellule dormienti dello Stato Islamico e della fratellanza musulmana, è una rete sunnita e qui stiamo parlando di un confronto con il mondo sciita. Dobbiamo quindi restare tranquilli? Questo mai, a meno che non si debba tenere in considerazione che lo Stato Islamico voglia dimostrare di esistere ancora e voglia colpire per godere in mezzo ai due litiganti.