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Pescatori siciliani sequestrati in Libia: così l'Italia li ha dimenticati

pescatori di mazara sequestrati in libia

Siamo un paese dalle morali sussultanti: ci commuoviamo quando a essere sequestrato è un giornalista o un volontario, ma restiamo indifferenti quanto tocca a un lavoratore ignoto.

Provate a pensare a un mese fa, il primo di settembre. Dove eravate, se ancora in vacanza o già al lavoro, se già pensavate al ritorno a scuola, o avevate ancora addosso il sapore dell’estate: sembra una vita fa. Questi 30 giorni diciotto persone li hanno trascorsi in un carcere libico. Sono diciotto pescatori di Mazara del Vallo, che un mese fa erano a bordo di due pescherecci, l’Antartide e il Medinea, impegnati nella pesca al gambero rosso a 38 miglia dalle coste libiche, e sono stati sequestrati da una milizia libica.

Ho detto carcere, e ho detto milizia, perché a Bengasi non c’è uno Stato con tutti i crismi di uno Stato, e dunque non ci può essere né un potere sovrano che stabilisce unilateralmente che le acque a 35 miglia dalla costa sono acque territoriali proprie, né un potere giudiziario che accusa, processa e condanna.

E infatti i libici non stanno facendo un’istruttoria sulla vicenda, e non essendo convinti neppure loro della questione della territorialità, hanno ripiegato sull’accusa ai due equipaggi di fare traffico di droga verso la Libia, come se pensassimo che dei norvegesi vogliono aprire una catena di pizzerie a Napoli. Una montatura, e una scorciatoia per arrivare al ricatto: o liberate i quattro libici che un tribunale di Catania ha condannato a trent’anni sulla base di evidenze e di prove, con l’accusa di essere stati quelli che avevano impedito la risalita in plancia di 49 migranti morti asfissiati nella stiva di un barcone, il giorno di Ferragosto del 2005. I loro famigliari, i loro amici li difendono dicendo che si trattava solo di calciatori con il sogno di venire in Europa, e che si erano prestati, nel viaggio clandestino, a fare da scafisti volontari. E adesso i libici sono espliciti: dateci i nostri quattro, e noi vi liberiamo i 18.

Non un’estradizione, non una trattativa legale: un baratto di umani, un ricatto da sequestratori, e la proposta di avvilire la sovranità giudiziaria italiana per salvare la vita e la libertà di 18 lavoratori. Una situazione resa più complicata dal fatto che la Libia è divisa in due, e l’Italia sta da tempo con l’altra parte, quella di Tripoli, riconosciuta sì dalle Nazioni Unite, ma anche adottata dai Fratelli Musulmani e sponsorizzata dal turco Erdogan. I pescatori sono in mano alla Libia del generale Haftar, sponsorizzato dalla Russia, dall’Egitto, dagli Emirati Arabi. E si capisce subito che l’Italia non è più quella che, maestro Andreotti, era capace di essere amica di tutti, e di essere influente proprio per questo. Contiamo quasi nulla, e specie adesso, sembriamo mancare perfino di cultura, conoscenze, rapporti che ci consentano di trattare a ogni livello, alla luce del sole e nel buio della notte, con questo e con quello.

In più, siamo un paese dalle morali sussultanti: ci commuoviamo quando a essere sequestrato è un giornalista o un volontario, ma restiamo indifferenti quanto tocca a un lavoratore ignoto, un pescatore che si guadagna il pane. Dovrebbe valere, un po’ di indignazione, per tutti. Ci sono 8 siciliani, tra i sequestrati, buoni per coloro che dicono prima gli italiani. E 6 tunisini, 2 senegalesi, due indonesiani, buoni per i profeti dell’accoglienza: erano nuovi italiani, gente che ha un lavoro, che lavora fianco a fianco dei nostri, e fa un lavoro duro.

Guardate le soste in porto di uno dei due pescherecci, in questa nostra bella estate, e immaginate battute di pesca da un mese, e ritorni di pochi giorni in case che adesso sono piene solo di angoscia, e dove non squilla il telefono.

Ci sono stati altri sequestri, in passato, nelle acque tunisine. Acqua passata, appunto. Ci sono stati altri sequestri in Libia, ma qui c’erano Prodi o Berlusconi, e là il padre Padrone Gheddafi: lieto fine. L’altro ieri i famigliari sono stati finalmente ricevuti da Conte e Di Maio. Ma adesso non siamo noi ad alzare la cornetta, sono i sequestratori a dettare condizioni al telefono. Almeno cerchiamo di non fare finta di niente.