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Patrick Zaki è solo il più eclatante attacco alla libertà di studio e di ricerca dell'Egitto

Carcere

Non si contano le incursioni sommarie in casa di transgender, gli arresti con accuse di finti “matrimoni gay” e le proposte di legge per criminalizzare l’omosessualità.

È passato poco più di un anno dall’arresto al suo arrivo dall’Italia in Egitto dello studente dell’Università di Bologna e collaboratore del think tank Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), Patrick Zaki. Non esistono dei motivi concreti che giustifichino la lunga detenzione di Patrick, come confermato anche dalla sua avvocata, Hoda Nasrallah.

La detenzione di Patrick, che ha ottenuto la cittadinanza onoraria di Bologna mentre i suoi genitori auspicano che diventi anche cittadino italiano, pone delle questioni di rilievo sul rispetto dei diritti umani, dei diritti allo studio e sull’interno sistema giudiziario egiziano. Lo scorso primo febbraio la custodia cautelare di Patrick è stata estesa per ulteriori 45 giorni.

È vero che in Egitto la detenzione preliminare può durare fino a due anni ma questo pone delle questioni procedurali molto serie per il rispetto dei diritti del detenuto che spesso, come è capitato e capita a tanti egiziani, resta in carcere senza motivi per anni solo perché percepito come un potenziale oppositore politico dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013.

La generica accusa con cui Patrick è detenuto riguarda la diffusione di notizie false via internet. Quindi si tratta di un reato con cui decine, centinaia di attivisti sono stati arrestati in Egitto per il timore che attraverso i social network possa “tornare la rivoluzione”, a dieci anni dall’occupazione permanente di piazza Tahrir.

E poi se il reato di Patrick, per decisione delle autorità egiziane, fosse in realtà un altro, il caso potrebbe “rotare” senza nessun problema procedurale facendo ripartire da zero l’attesa della custodia cautelare e così le chiavi della cella di Patrick potrebbero essere gettate via ancora per anni. Nel caso specifico però l’imputato si è detto estraneo alle accuse di cyber-attivismo che gli vengono mosse.

La repressione della comunità Lgbt al Cairo

E così Patrick potrebbe in realtà essere in carcere perché frequentava a Bologna un Master in Studi di genere. Il regime militare egiziano cerca di accreditarsi come garante della moralità dello stato non solo reprimendo i Fratelli musulmani e accusandoli di terrorismo semplicemente perché perseguono una commistione tra politica e religione, ma anche perseguitando la comunità Lgbtq egiziana.

L’ultimo caso eclatante è il suicidio dell’attivista Lgbtq, Sarah Hegazi, che si è tolta la vita in Canada dopo essere stata arrestata al Cairo, insieme ad altre 16 persone, nel settembre 2017, per aver mostrato una bandiera arcobaleno al concerto della band libanese, Mashrou Leila.

Non si contano gli attacchi e le incursioni sommarie in casa di transgender in Egitto, gli arresti con accuse di finti “matrimoni gay” in imbarcazioni al largo del Nilo, le riprese televisive per stigmatizzare hammam, come il Sea Door, come luoghi di incontro per omosessuali al Cairo, proposte di legge per criminalizzare l’omosessualità e mettere sotto controllo gay e lesbiche stranieri che vivono in Egitto.

Patrick è stato direttamente accusato in alcune trasmissioni televisive di essere in Italia per “studiare l’omosessualità”. Eppure, forse neanche questo basta a spiegare perché Patrick Zaki ad un anno dal suo arresto continua a rimanere in carcere senza motivo in Egitto.

Probabilmente il suo legame con l’Italia rende Patrick un “detenuto d’eccellenza” per le autorità egiziane: una potenziale merce di scambio preziosa con le autorità italiane quando sta per iniziare il processo del caso Regeni che ha messo a dura prova i rapporti bilaterali tra Italia ed Egitto.

Se è chiaro che i magistrati italiani non faranno un passo indietro nell’accertamento delle responsabilità dei militari della Sicurezza Nazionale, coinvolti nel caso, le autorità egiziane hanno fin qui ottenuto tutto quello che volevano in merito alle forniture di armi da Roma incluse fregate Fremm per un valore di 1,2 miliardi di euro, e i nuovi accordi militari firmati l’8 dicembre 2020 che includono 24 M346 jet, 24 Eurofighter Typhoon, 20 navi di pattugliamento e un satellite militare. E ancora sperano di poter insabbiare il caso Regeni continuando ad accusare una banda di criminali o semplicemente con il demansionamento di uno dei quattro alti militari indagati dai magistrati italiani, Tariq Saber.

Un attacco alla libertà di studio e di ricerca

In verità, prima di ogni altra cosa, il caso che coinvolge Patrick Zaki riguarda in maniera diretta la possibilità di studiare e fare ricerca fuori e dentro il Paese. Quella libertà di ricerca che è stata messa a dura prova dopo l’arresto, tortura e morte di Giulio Regeni ma che quotidianamente costringe al silenzio centinaia di studenti e ricercatori in Egitto, stranieri che lavorano nel Paese o egiziani che studiano all’estero e che fanno ritorno nel loro Paese.

L’ultimo caso in ordine di tempo riguarda Ahmed Samir Santawy, studente del Master in Sociologia alla Central European University (CEU) di Vienna. Dopo giorni in cui era sparito nel nulla, Santawy è in custodia cautelare per 15 giorni con le accuse di far parte di un’organizzazione terroristica e pubblicazione di notizie false. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal fratello, Santawy era stato interrogato sulle sue attività di ricerca, le sue relazioni con gli Ultras che hanno partecipato alle proteste del 2011 della
squadra di calcio dell’Al-Ahly e con la Fratellanza musulmana, al suo arrivo all’aeroporto di Sharn el Sheikh il 23 dicembre scorso.

Secondo il suo avvocato, Nabih al-Genady, che non ha potuto prendere parte all’interrogatorio, Santawy sarebbe stato picchiato dopo
essere stato fermato dalle forze di sicurezza egiziane e tenuto in una località segreta. Lo scorso 23 gennaio, mentre Santawy si trovava in vacanza a Dahab, le forze di sicurezza egiziane hanno perquisito la casa della sua famiglia. Dopo la diffusione della notizia della sua scomparsa, il presidente della CEU, Michael Ignatieff, ha chiesto il suo rilascio immediato, mentre il think tank Arab Network for Freedom of Thought and Expression ha definito la sua detenzione come un sintomo di un modello di “intimidazione e molestia” da parte delle autorità egiziane.

Un caso simile, tra le decine di casi di ricercatori e giornalisti intimiditi e messi sotto controllo, aveva coinvolto nel 2018 Walid al-Shobaky, dottorando dell’Università di Washington, arrestato dopo quattro giorni di sparizione forzata a seguito di un incontro con il professore di Legge dell’Università di Zagazig, Mohamed Nour Farahat.

Shobaky è stato poi accusato di diffondere notizie false e appartenere a un’organizzazione terroristica nel caso 441/2018, insieme ad avvocati, blogger e giornalisti. Dopo sei mesi di prigione, Shobaky è stato rilasciato ma non può lasciare il Paese e deve ancora oggi presentarsi a una stazione di polizia per quattro ore alla settimana.

Infine, resta ancora sconosciuto, dopo 19 giorni, il luogo dove è detenuto l’avvocato Islam Salama. Tre settimane dopo il suo rilascio su cauzione da parte del procuratore di Mahalla, Salama, che ha difeso tanti egiziani vittime di sparizioni forzate, è scomparso per tre periodi consecutivi nei nove mesi prima del suo arresto nel maggio scorso. L’avvocato Mokhtar Mounir ha inviato una richiesta ufficiale per chiedere il luogo dove è detenuto Salama definendo la sua scomparsa una “flagrante violazione di tutti i diritti costituzionali e legali”.