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Il disastro del Vajont: i morti, la storia della tragedia e il processo

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Una delle maggiori tragedie nella storia d'Italia, il disastro della diga del Vajont resta l'emblema dei pericoli dello sfruttamento della natura.

Il 17 Ottobre 1961 si inaugurava la Diga del Vajont, edificata lungo il corso del torrente Vajont, che dona il nome alla valle che ha scavato nel corso dei millenni. Nemmeno due anni dopo la sua inaugurazione, nella notte del 9 Ottobre 1963 una frana di dimensioni titaniche si staccò dal Monte Toc per ricadere nel bacino idrico della diga, che oggi ancora si erge tra i costoni di roccia delle montagne che la circondano, a testimonianza della tracotanza degli uomini che la edificarono. Un disastro annunciato ma rimasto inascoltato.

Disastro del Vajont: la storia

Già nell’Antica Roma si conosceva bene l’instabilità delle montagne di questa particolare zona tra Veneto e Friuli-Venezia-Giulia. Inoltre, nel corso dei secoli si erano susseguite con insistenza frane e smottamenti, anche di una certa importanza.

Le ultime furono oltretutto quella del Lago di Pontesei nel 1959, con la stessa identica modalità della catastrofe del 1963 e la stessa azienda, la SADE, che aveva progettato la diga, e quella del Monte Toc del 1960, mentre la diga era già in costruzione.

Ciononostante, i lavori procedettero con il beneplacito sia dei comuni partecipanti che del Ministero dei Lavori Pubblici, a causa soprattutto della mistificazione da parte della SADE delle prove che avrebbero fatto cessare l’opera una volta per tutte. In questo modo si dava ufficialmente il via libera al disastro che avrebbe cambiato per sempre la storia della valle del Vajont.

La tragedia

Dunque, alle 22:39 del 9 Ottobre 1963, 270 milioni di metri cubi di roccia si staccarono dal Monte Toc e precipitarono nel bacino idrico formatosi con l’edificazione della diga. Il risultato della frana furono due onde: una si diresse verso monte e una verso valle, scavalcando la diga.

A monte, Casso, un paese che si trovava sull’altra sponda del lago di fronte al Monte Toc, riportò ingenti danni ma fu risparmiato dalla furia distruttrice delle due onde. Meno fortunati furono i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino, distrutti totalmente insieme alla parte bassa di Erto. Nelle sole Erto e Casso il numero delle vittime fu di 158.

A valle, la situazione fu ancor più disastrosa. L’onda che aveva scavalcato la diga ricadde nella valle sottostante, investendo in pieno il paese di Longarone, nel quale si contarono 1458 vittime. A terra l’onda aveva raggiunto l’altezza di 30 metri, e l’esigua larghezza della valle ne aveva accelerato la velocità. Sradicò dalle fondamenta tutto ciò che si trovava sulla sua strada.

Nella frazione di Pirago di Longarone rimase in piedi solamente il campanile. Altri paesi che subirono la potenza devastante dell’inondazione furono Codissago e Castellavazzo, che registrarono in totale 111 morti. Ai sopravvissuti del disastro del Vajont non rimaneva che ricostruire.

Il processo

Nonostante il numero complessivo di vittime che la frana aveva causato, 1917, i principali responsabili della tragedia se la cavarono con poco. Tra questi, Alberico Biadene, ingegnere responsabile e vicedirettore Enel-SADE, il 25 Marzo 1971 fu condannato in Cassazione a cinque anni di reclusione.

Tre per gli omicidi e due per il disastro. Tre anni gli furono condonati dall’amnistia per motivi di salute, e dei restanti fece solamente un anno e sei mesi per buona condotta. Era stato Biadene a omettere informazioni utili sulle frane del Monte Toc nelle sue relazioni al Ministero dei Lavori Pubblici.

Mario Pancini, invece, il più stretto collaboratore di Alberico Biadene, aveva cercato più volte di avvertire i dirigenti Enel-SADE dei potenziali rischi dell’impianto idroelettrico. Tuttavia i suoi allarmi furono volontariamente ignorati. Con l’avvio delle indagini, Mario Pancini si tolse la vita per la vergogna e il senso di colpa il 28 Novembre 1968.