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La didattica a distanza abolisce i diritti degli studenti

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La dad rischia di trasformare sempre più gli studenti in vittime di un sistema nato per salvaguardarli. Il mio appello è a voi, cari professori: non rendete tutto più difficile già di quanto sia.

Una benda davanti agli occhi, per essere sicuri che lo studente non stia sbirciando appunti o libri nascosti. Ha destato molto scalpore il metodo ‘anti furbetti’ pensato da una docente di Tedesco di una scuola di Verona. Non un caso limitato – a ottobre un episodio simile in un liceo di Scafati, vicino Salerno – ma metafora di come la didattica a distanza stia trasformando il modo in cui gli studenti vivono il processo formativo all’epoca del distanziamento sociale.

Involuzione di quello che un tempo era appannaggio delle strutture scolastiche. E che rischia di trasformare sempre più gli studenti in vittime di un sistema nato per salvaguardarli.

Già, perché gli anni dell’adolescenza rimangono una delle pietre miliari nella formazione di un adulto e viverli lontano dal contatto fisico, costretti a mediare con limitazioni imposte dal medium tecnologico (tra connessioni lente, microfoni che non si attivano, immagini difficilmente visualizzabili a schermo), può rappresentare un ostacolo importante per le future generazioni. E per gli studenti non c’è modo di ribellarsi: lo spazio decisionale davanti a una videochat è nettamente ridotto rispetto a quello in classe. Non si può che subire, in silenzio.

Va detto, certo, che anche per i docenti si tratta di un mondo nuovo, quello della famigerata ‘dad’, che hanno dovuto accettare obbligatoriamente. Spesso malvolentieri, vista la ritrosia tecnologica di alcuni insegnanti, magari già in difficoltà con device più semplici, come le Lim. Non bisogna però dimenticare mai che se per i professori le classi si susseguiranno negli anni, per i ragazzi che seguono dietro allo schermo si tratterà di un’occasione unica.

Nessun restituirà loro queste ore passate a casa davanti a un computer e l’empatia deve diventare, giocoforza, un sentimento trascinatore se vogliamo farli appassionare alle materie e rivelare un’attitudine che diventerà fondamentale nella scelta dell’università o, più avanti, della professione da intraprendere.

Il mio appello è a voi, cari professori: alla generazione ‘pandemica’ abbiamo tolto il calore di una stretta di mano dell’amico a pochi minuti dall’interrogazione, la soddisfazione del confronto chiassoso davanti ai ‘quadri’ della maturità, la gioia del primo bagno in mare con i compagni dopo aver salutato per l’ultima volta quelle pareti che hanno rappresentato la quotidianità negli anni scolastici. Per loro, invece, tutto è racchiuso in una stanza, una parte del loro mondo in uno schermo, davanti a cui rimangono per ore sentendovi parlare. Non rendete tutto più difficile già di quanto sia.

Empatia, avevamo detto. La stessa di quel professore di Diritto Commerciale dell’Università di Pisa che ha impedito a un autista di sostenere l’esame mentre era alla guida del mezzo. Certo, direte voi, avrebbe messo a repentaglio la sicurezza dei passeggeri. Ma lo sforzo di umanità arriva quando si offre di farlo richiamare a fine turno da uno dei suoi collaboratori, invece di rimandarlo alla sessione successiva.

Ci sono storie tragiche che sono nate in questi tempi così straordinari della pandemia. E alle volte bisogna saper comprendere cosa sta generando, ancora di più nei giovani. Forse questa volta c’è davvero bisogno che la benda la togliate, ma davanti ai vostri occhi. La lezione più grande che potrete imparare, ancora prima di quella che insegnate a chi è collegato con voi in videochat, è che la cosa più difficile – ma per questo ancora più necessaria – è sapersi mettere nei panni dell’altro.