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La nuova geografia economica

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L’emergere di una nuova geografia della produzione internazionale non è una novità. È ormai banale parlare della Cina come fabbrica del mondo, dell’India come del suo ufficio o del Brasile come della sua fattoria. Si deve dire che è in crescita soprattutto l’influenza politica dei grandi p...

L’emergere di una nuova geografia della produzione internazionale non è una novità. È ormai banale parlare della Cina come fabbrica del mondo, dell’India come del suo ufficio o del Brasile come della sua fattoria.
Si deve dire che è in crescita soprattutto l’influenza politica dei grandi paesi emergenti: gli ultimi forum ne sono una testimonianza attiva della loro forza politica acquisita.
Certo, il volume degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico meridionale è poco più che una goccia nell’oceano della globalizzazione. Lo stesso commercio sino-africano, malgrado la crescita impetuosa registratasi negli ultimissimi anni, non rappresenta che un terzo dell’intercambio tra Cina e Corea. Eppure, la cooperazione economica Sud-Sud, concetto antico e spesso rimasto allo stadio delle dichiarazioni politiche o poco più, sta acquistando un rilievo nuovo, che il Nord ha interesse a meglio comprendere.
Questi e altri paesi del Sud non si limitano infatti a esportare verso il Nord, o ad attrarne gli investimenti. Secondo l’Organizzazione mondiale del commercio, gli scambi commerciali Sud-Sud pesavano per poco più del 6 per cento del totale nei primi anni ‘90 e si è arrivati all’11 per cento nel 2001. Per quanto riguarda gli scambi Sud-Sud di manufatti, secondo l’Ocse sono cresciuti del 12,49 per cento nel 1985-2002, un ritmo ben superiore a quello degli scambi Nord-Nord e Nord-Sud (7,04 e 9,75 per cento, rispettivamente). In un settore come gli oli vegetali e animali, gli scambi Sud-Sud già rappresentano un terzo del commercio mondiale.
La nazionalità delle grandi multinazionali stia rapidamente mutando e i flussi degli investimenti internazionali si stiano ri-orientando. L’Unctad, nel recente World Investment Report, mostra come gli investimenti provenienti da paesi in via di sviluppo e in transizione, compresi alcuni paradisi fiscali, abbiano rappresentato dal 2005 ad oggi, circa il 19 per cento dei flussi mondiali totali. Soprattutto, le cosiddette “multinazionali emergenti” contribuiscono per una quota assai significativa degli investimenti dall’estero in paesi in via di sviluppo e in transizione come Bangladesh, Etiopia, Kyrgyzstan, Laos, Paraguay, Tailandia e Tanzania. Interessantissima l’esperienza della Sierra Leone, paese non solo poverissimo, ma esangue dopo una guerra civile inaudita per ferocia. Il bisogno di investimenti è ovviamente immenso, ma pochi imprenditori sono disposti a rischiare – tranne i cinesi.
Come per gli scambi all’interno della Triade, anche per il commercio e l’investimento Sud-Sud è evidente la concentrazione regionale, anche se è meno marcata dall’integrazione formale che dall’iniziativa della business community. Una constatazione che non sorprende dato che gli scambi all’interno della stessa regione sono particolarmente dinamici in Asia, dove il regionalismo è sempre stato “leggero”, e meno in America Latina e, soprattutto, in Africa, dove invece tonnellate d’inchiostro sono state versate per firmare piani d’azioni rimasti incompiuti.
La dimensione Sud-Sud acquista un rilievo crescente anche in altri ambiti. Per esempio, la Russia è il secondo maggior ricettore di migrazioni internazionali e la metà dei venti principali paesi di destinazione sono nel Sud – dal Pakistan all’Ucraina, da Hong Kong alla Costa d’Avorio. A migrare verso altri paesi del Sud sono anche gli studenti universitari: ce ne sono di più, di stranieri, in Sud Africa che in Canada o in Italia.
La Cina e gli aiuti allo sviluppo
Infine, ed è su quest’aspetto che si è fino ad ora concentrata l’attenzione dei policy-maker del Nord, alcuni paesi del Sud stanno mettendo in piedi importanti programmi di cooperazione allo sviluppo – anche se rimangono ben cauti nell’utilizzare questo termine.
Se i paesi produttori di petrolio, e in particolare quelli arabi, hanno dato vita a iniziative di questo tipo negli anni Settanta, spesso per aiutare altri paesi mussulmani che erano stati colpiti negativamente dal primo shock petrolifero, oggidì è la politica della Cina ad attrarre maggiore attenzione. Il Focac, per esempio, si è concluso con una serie di impegni di Pechino a sostenere lo sviluppo dell’Africa, o quantomeno di quei paesi che non riconoscono Taiwan, attraverso prestiti, doni e investimenti di varia natura il cui ammontare supera i 5 miliardi di dollari.
Mentre l’Occidente condiziona il proprio intervento al raggiungimento di certe condizioni che garantiscono il buon esito della cooperazione, la Cina paga sull’unghia e non fa troppe domande, a condizione che i beneficiari vendano le proprie materie prime e siano disposti a utilizzare i fondi ricevuti per acquistare beni e servizi da società cinesi. In compenso, mentre nell’immaginario del Nord, l’Africa è rappresentata soprattutto (soltanto?) come fame e miseria, per il ministero degli Affari esteri cinese è un partner paritario di cui è opportuno sottolineare l’attrattività come destinazione turistica. Una differenza d’approccio su cui vale la pena riflettere.
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