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La sindrome di Stoccolma che la politica vive al Quirinale con Mario Draghi

draghi

Mario Draghi è diventato il solo grimaldello della possibilità che la nostra vita vada meglio. E no, il Covid non può e non deve giustificare questa autarchia.

È un film che conosciamo poco, quello dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ne conosciamo molto bene la sceneggiata ma molto poco la sceneggiatura, quella parte cioè che davvero decide chi e come un Capo dello Stato debba insediarsi al Quirinale. E ci sono aspetti che finiscono per sfuggirci perché noi italiani abbiamo due pecche: primo, non riusciamo a discernere da sempre la politica dei partiti dalle dinamiche delle istituzioni, secondo e a traino perché siamo portati a pensare che la prima prevalga sempre sulle seconde, nel bene o nel male.

E alla fine ci facciamo prendere la mano dallo sdegno profondo nel vedere come durante l’elezione del Presidente della Repubblica tutti parlino con tutti e negli uffici, quelli belli, si consumino i summit più incestuosi fra i nostri beniamini e i rappresentanti degli schieramenti avversi. Le agenzie ci sparano dritti in faccia i lanci di capipopolo tiroidei che si fanno passare lo zucchero da squadernati leader moderati e noi cadiamo con tutti e due i piedi nella mistica del “è tutto un magna magna”.

Non funziona così e se non funziona così è perché i Padri Costituenti l’avevano pensata fina e giusta: in Italia il Presidente della Repubblica dura in carica sette anni esattamente per il motivo che è insito nella sua mission, che è quella di essere la persona più rappresentativa possibile di tutte le istanze di tutti gli italiani, o quanto meno di tutti coloro che col meccanismo della democrazia parlamentare sono stati delegati dagli italiani a prendere decisioni cruciali o “semplicemente” importanti.

Un Capo dello Stato è una somma, non è un prodotto, è un riassunto e non il capitolo più accattivante del libro, è il frigo che funziona bene, non il cibo più goloso. Ed è per questo motivo che sette anni sono il tempo minimo per consentire la sovrapposizione di più governi, che in media ne durano quattro e che in Italia possono avere vite molto più effimere. Perché il messaggio che deve passare è che che l’azione di un governo e gli indirizzi politici che quel governo prende non devono avere nulla a che fare con chi è garante di quell’azione e assieme a quella di tante altre cose.

Garanzia istituzionale ed azione politica perciò sono due cose in medesimo casermaggio ma con gradi, “durata di naja” e mission diverse. Ecco perché pare ancora più miserella la faccenda per cui in queste ore concitate ed importanti l’impressione tangibile è che Palazzo Chigi sia il vero epicentro di tutta la faccenda, che il Quirinale sia una dependance da cui scegliere il colore della moquette e Mario Draghi sia la cartina tornasole di ciò che i grandi elettori dovranno decidere.

Non perché Mario Draghi sia un premier eccellente o sopravvalutato, ma perché nel tempo e nella mistica che ci ha presi un po’ tutti Mario Draghi è diventato il solo grimaldello della possibilità che la nostra vita vada meglio e che le nostre faccende di governo di sistemi complessi vadano a meta e trovino la quadra. E l’elezione al Quirinale risente in maniera ossessiva di questa ossessionante ossessione per una leadership che assomiglia sempre di più ad un sultanato illuminato.

Draghi e il Colle sono legati anche senza che necessariamente Draghi al Colle ci vada perché quello che dovrà andare al Colle dovrà garantire non di essere, come dovrebbe essere, la sintesi delle istanze della rappresentanza politica italiana, ma la sintesi delle possibilità che Draghi resti centrale ed accompagni l’Italia fuori dal tunnel. Ed è un tunnel da cui, e diciamolo una volta per tutte, senza tema che i ciambellani ci facciano carne trita, l’Italia saprebbe uscire anche con un onesto premier che magari in Consiglio dei Ministri faccia parlare qualcun altro o si prenda un cazziatone da un partito insoddisfatto.

No, il Covid non può e non deve giustificare questa autarchia, questo cilicio quirinalizio con riverente impalcatura, e di Coriolani buoni per le stagioni difficili siamo un filino stufi tutti.

Perché la sindrome di Stoccolma nella vita di uno Stato di Diritto è molto più che un fenomeno da film figo e a volte è meglio essere liberi di sparare una fregnaccia che essere ostaggi gioiosi ed ebeti degli uomini del destino che le fregnacce non le dicono mai perché se le dicono nessuno gli va a dire che le hanno dette.

Di quelli ne abbiamo avuti già, e non è andata molto bene.