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X Factor, non è tutto oro quel che luccica

x factor 2019

Tutti sono terroni di qualcun altro, ecco che anche nell'ambito dei talent.

Siamo tutti i terroni di qualcun altro, dice un vecchio adagio. Neanche troppo vecchio, credo, perché la parola terroni credo non abbia più di una cinquantina d’anni. Ma ci siamo capiti. Il senso è facilmente decifrabile: ovunque tu sia e chiunque tu sia, ci sarà sempre qualcuno che si riterrà superiore a te (chi chiama terroni i meridionali, suppongo, si ritiene migliore di loro).

Partiamo da qui. Tocca solo decidere di chi vogliamo essere i terroni e chi vogliamo considerare tali. Parliamo di X Factor, e già immagino che molti di voi abbiano storto il naso. O almeno quanti sono capitati qui per caso, perché il titolo parla chiaramente di X Factor (dissimulare meraviglia è quindi un po’ da fessacchiotti), e quanti, evidentemente ritengono al momento che star qui a parlare di X Factor sia da terroni.

I talent sono la “terronia” della musica

Proviamo a fare un passo indietro: i talent. Chiunque si occupi di musica (seguitemi, non di intrattenimento, né di spettacolo, ma di musica), o almeno chiunque si occupi di musica non come cronista, guarda ai talent con aria di sufficienza. Alcuni, e chi scrive è evidentemente tra questi, con orrore.

Non ci fosse stata la discografia che abbiamo – gestita da personaggi che in un mondo normale non verrebbero interpellati neanche per capire se durante una comune manovra di parcheggio c’è sufficiente spazio tra il proprio paraurti posteriore e quello della macchina più vicina (“Mi può guardare se tocco”) e che invece per uno di quei misteri che hanno fatto la fortuna di Giacobbo si trovano a guidare delle multinazionali – si potrebbero addirittura attribuire ai talent i mali che attanagliano oggi questo settore.

Perché per anni è ai talent che tutti quelli che muovono la macchina hanno guardato con quella forma di asservimento adorante che in psicologia si chiama Sindrome di Stoccolma, ovvero quella particolare forma di innamoramento che il prigioniero prova verso chi lo tiene imprigionato. Poi, per fortuna, è arrivata Spotify, e a tutti è stato chiaro che non era colpa dei talent, perché di colpo è a Spotify e allo streaming che tutti hanno guardato. E per tutti intendo sempre loro, i discografici.

Comunque, questo è un dato di fatto: chiunque si occupi seriamente di musica guarda ai talent con una gamma di atteggiamenti che vivono tra la sufficienza e l’orrore. E siccome tutti sono terroni di qualcun altro, ecco che anche nell’ambito dei talent, la terronia della discografia, ci sono terroni e terroni.

Quindi se guardi Amici sei più terrone di chi guarda X Factor, se guardi All Together Now neanche sanno che esisti, sei un molisano. Se guardi The Voice o sei un appassionato di trash o di camp – a seconda che a presentarlo sia Costantino della Gherardesca o qualcun altro – o sei terrone di tutti, perché, nonostante i numeri ci dicano ben altro, The Voice è considerato il talent con meno seguito. X Factor, quindi, in questo ristretto ambito sociologico, è in teoria il talent più settentrionale.

Una sorta di esquimese che può permettersi di guardare anche un danese come fosse lì in balia della passata di pomodoro e con le caciotte a stagionare in cantina. Chiaramente l’esquimese in questione diventa l’incarnazione di Abatantuono giovane e con i capelli ricci e folti che dice “U peppach’” nel momento in cui uno rientri nel novero di quanti ascoltano Joni Mitchell la mattina presto, per darsi la carica per affrontare la giornata. Mentre per quelli che vanno a vedere i concerti di John Zorn e Bill Laswell, beh, per quelli neanche fanno parte dello stesso universo, figuriamoci.
La domanda da porsi oggi, giovedì mattina, quando sto scrivendo, presumibilmente un giorno qualsiasi da venerdì in poi, data in cui il pezzo verrà pubblicato, è: perché X Factor viene identificato come il talent più figo? Quello più settentrionale di tutti, dando per assodato, a rigor di metafora, che essere meridionali sia peggio che essere settentrionali, questo il campo in cui ci stiamo muovendo? Immagino che le motivazioni siano molteplici.

Primo, perché va in onda su Sky, che sulla coolness ha fatto negli anni un lavoro direi anche piuttosto attento. Un lavoro, mi ripeto, che in realtà proprio sui numeri frana. Ma la coolness, è noto, non deve necessariamente fare i conti coi numeri, anzi.

Montaggio veloce, spettacolarizzazione delle coreografie: questo innanzitutto grazie alla grandeur di Luca Tommassini, che per anni ha seguito questi aspetti, e alla figaggine tutta americana o americanofila di Cattelan, che ci ha raccontato bene di essere il nostro Jimmy Fallon. Un lavoro di fino sui social che, anche qui mi ripeto, ha fatto apparire un nano come un nano molto alto.

Fino a oggi, va detto, anche aver azzeccato i giudici, che notoriamente sono la colonna vertebrale dei talent, se non la sola ragione d’essere, assai più che aver azzeccato i cantanti in gara. Di quelli, non c’è bisogno di star qui a sottolinearlo, quasi sempre si perde traccia. E star qui a citare Gio Sada, Fragola o i Soul System, per non dire di Licitra e tanti altri, sembra davvero poco elegante, se non addirittura crudele.

X Factor 2019: la prima puntata dei Bootcamp

Quindi X Factor si regge tutto sulla coolness, sulla figaggine che in qualche modo ce lo presenta come qualcosa di imperdibile, di vincente, di spettacolare. Ora, però, se proviamo a ragionarci a bocce ferme – e non ho infilato il fatto che io stia scrivendo la cronaca della quarta puntata, la prima dedicata ai Boot Camp, di giovedì mattina, cioè prima che sia andata in onda, come a volermi ergere a più cool dei cool, uno che al concerto milanese di John Zorn e Bill Laswell c’era, venticinque minuti di suoni lancinanti, di quelli che ti fanno sanguinare occhi e orecchi, per caso, perché è evidente a tutti che se c’è un muro sul quale X Factor si sta andando a schiantare è proprio quello della meccanicità prevedibile in cui si è incartato, e che quindi è assolutamente sapere prima quel che sta per accadere, come in una fiction di RAI1 con Beppe Fiorello – se proviamo a ragionarci a bocce ferme non possiamo che riconoscere che raccontarsi come fighi non comporta essere fighi.

Intendiamoci: siamo circondati da casi di chi, millantando e millantando, è riuscito a fare carriera. Ma non è che se io di colpo volessi dire di essere alto un metro e novanta automaticamente diventerei alto un metro e novanta. Non funziona così.

Infatti, il racconto di X Factor come qualcosa di molto figo si è negli anni opacizzato, anche per la clamorosa incapacità di intercettare artisti interessanti, perché quelli interessanti che ci sono passati hanno poi dovuto faticare a scrollarsi di dosso l’essere stati lì, mentre quelli che il programma ha provato a spacciarci come interessanti sono semplicemente scomparsi, morti, sepolti. Ma non solo. Si è opacizzato perché sono arrivati giudici poco all’altezza della coolness raccontata. Pensiamo a un Lodo Guenzi o a una Levante, che da essere decisamente molto cool sui social e sul palco si è dimostrata piuttosto incapace di portare quell’aura anche sulla poltrona dei giudici. Per non dire dell’ultima Arisa, divertentissima con le sue esternazioni poco lucide, ma decisamente poco cool, come tutti quelli che non siano Mara Maionchi.

Ecco, questo è il punto. X Factor si regge ormai, troppo, su Mara Maionchi, l’unica a non dover costruire o ricostruire una carriera, quindi la più sincera e diretta. Mara Maoinchi che, però, è una e non quattro, per cui si trova di volta in volta a dover tenere testa a personaggi decisamente meno interessanti di lei, soprattutto meno capaci di comunicare di lei.

Quest’anno la faccenda rasenta la tragedia. Ma non la tragedia greca, intendiamoci, perché sarebbe anche troppa grazia con tutte quelle divinità che si scopano gli umani e poi scatenano guerre tanto per il gusto di farlo, una tragedia piatta, da cronaca nera, una notizia che si gioca sui toni splatter e che domani verrà sostituita da una ancora più splatter.

Prova ne è la prevedibilità degli altri tre giudici in gara, tutti intenti a dover stupire, facendo almeno una scelta clamorosamente sbagliata a testa, e tutti intenti a rimarcare il proprio ruolo nel programma e nel mondo, come certi personaggi di certe brutte fiction che per farsi riconoscere e amare sono costretti a vestire in tutte le puntate con gli stessi abiti, manco fossero i Simpson.

Sì, nel mentre è giovedì notte, e quanto sopra ipotizzato è diventato un dato di fatto, non più una ipotesi. Le prime due squadre che andranno agli Home Visit sono state composte: quelle dei Gruppi, capitanata da Samuel, e le Under Donna, capitanata da Coso-Lì, e per amor di televisione, e soprattutto di storytelling, come prevedibile, tutte e due le squadre sarebbero potute essere migliori. Come in certe serie tv americane hanno fatto morire personaggi che funzionavano per amor di sceneggiatura. Hanno fatto morire addirittura i personaggi migliori, come nel caso dei Keemosabe e di Martina Maggi e Doll Kill, tanto per dare un po’ di ritmo a una puntata per altro degna di The Walking Dead. Tutto lento e telefonato. E questo non va bene, perché X Factor per quanto il più nordico dei talent è pur sempre un talent, un mero programma tv di pochissimi ascolti, la vera tragedia è che, se si è prevedibili, non si può essere cool. Fonzie che dando un cazzotto sul Jukebox lo faceva partire era una macchietta, non era certo affascinante. X Factor è prevedibilissimo, e nel suo essere costantemente privo di talenti, è sconfortantemente la rappresentazione del fallimento di un certo tipo di televisione (un fallimento che occupandosi di musica ingenera una metanarrazione su chi fallendo si occupa di chi ha fallito).

L’aver scelto giudici non solo poco credibili, con la sola eccezione di Samuel, che però è una sorta di sfinge scappata dall’altrettanto torinese Muse Egizio, e soprattutto, l’aver scelto giudici che anche nel recitare i propri ruoli, Coso-Lì quello del simpatico coi capelli colorati che parla solo declinando il verbo “spaccare”, come quando da piccoli provavamo a sostituire tutte le vocali delle parole usandone solo una, ecco lui fa lo stesso con “spaccare”, Malika quello della sapientina con la bacchetta in mano, e Samuel quello di un Manuel Agnelli che non ce la fa, non ce la fa proprio, gli fa cagare X Factor ma ha un mutuo da estinguere, ha contribuito a rendere un format ormai stanco un format stanco e inguardabile. E, spiace dirlo, anche la presenza di Cattelan, bravo a fare Cattelan, ma poco sorprendente, alla nona edizione mostra tutto l’affanno del caso. Affanno che sfocia nella narcolessia, nella morte apparente, o forse proprio nella morte, la nostra.

Ora, dato per assodato che di talenti ce ne sono davvero pochini, e che tutti gli archetipi che si intuisce finiranno in campo, dal Brutto Anatroccolo dalla voce d’usignolo al Migrante di seconda generazione che la voce che ti spettina, passando per l’adolescente che si scoprirà donna strada, il tipo che ha preso otto in greco e quindi cita le cellule eucariote per far rima con carote, quello che cita Glovo per apparire indie, e i vari casi umani del caso, ci saremmo almeno aspettati una qualche sorpresa. Invece niente. Zero. Nisba. Barista, il solito.

Un discorso a parte meriterebbe il pubblico, sempre lì a gridare “sedia, sedia” per chiunque passi anche per caso dal palco. Un pubblico che fa rievocare a sproposito Freak Antoni, seppur in assenza di avanguardia: pubblico di merda.

Direi che ancor prima di arrivare ai Live la tragedia di cui sopra rischia di implodere, come certe stelle che poi si trasformano in buchi neri.

A questo punto, siccome sono molto prevedibile e molto cool anche io, chiuderò questo pezzo andando a pescare un paio di ricordi della mia infanzia.

Quando facevo il liceo sono andato in vacanza in montagna coi ragazzi del seminario che frequentavano la mia stessa scuola. Durante una delle nostre escursioni, dalle parti dell’Adamello, guadando un fiumiciattolo, forse sarebbe più corretto dire un ruscello, ho visto qualcosa che luccicava molto tra le pietre. Subito mi sono chinato, infilando le mani nell’acqua gelata. Se non avete mai infilato le mani nell’acqua di un ruscello di montagna, o nel mar Baltico, dubito possiate capire cosa intendo quando dico gelata. Sia come sia ho infilato le mani nell’acqua gelata e ho raccolto quello che aveva attirato la mia attenzione. Ora, sono stato bambino negli anni Settanta, quindi come tutti ho visto sia il Barone Rosso che Zanna Bianca al cinema della parrocchia, di sabato pomeriggio, seduto su poltroncine scomode di legno che oggi ritrovo nei locali alla moda. Quando ho quindi stretto tra le mani quel piccolo oggetto che aveva attirato la mia attenzione ho subito riconosciuto una piccola pepita. Anzi, una pepita neanche troppo piccola. Certo, ero dalle parti dell’Adamello e non nel Klondike descritto da Jack London, ma so riconoscere una pepita quando la vedo. Ecco, in realtà no, perché dopo essersi fatto una risata, il don che guidava la spedizione mi ha detto che si trattava di pirite, un minerale che non vale nulla molto diffuso nelle Alpi. Non sempre è oro quello che luccica, ha aggiunto, evitando un vaffanculo solo perché all’epoca non avevo ancora incontrato Jello Biafra sulla mia strada.

Quando ero ancora più piccolo avevo ancora tre dei miei quattro nonni. I due paterni e mia nonna materna. Erano tutti nati sul finire dell’Ottocento, essendo mia madre la settima di otto figli e mio padre secondo di due, ma nato a venti anni di distanza dal primo. Erano quindi nonni anziani, parecchio, gente che aveva vissuto tutte e due le guerre mondiali, nel caso di mio nonno facendone anche una. Bene, mia nonna materna, Fiorina, aveva un carattere particolarmente arcigno. Moglie di un marinaio, aveva dovuto crescere da sola otto figli, concepiti un po’ tutti in corrispondenza dei ritorni a casa di mio nonno Italo, che non ho mai conosciuto. Una donna forte, quindi, che per ragioni immagino più legate alla contingenza che alla natura ha sempre tenuto per sé i sentimenti, mostrandosi quasi fredda nella gestione dei rapporti personali. Anche con me, uno dei suoi tanti nipoti, terzultimo della folta schiera. Abituato a un rapporto piuttosto affettuoso coi miei nonni paterni, mio padre era il solo figlio loro rimasto, e io ero il nipote più piccolo, mi stupivo sempre nel non ricevere altrettante coccole quando andavo a casa di mia nonna Fiorina. Tanto quanto mi stupii, una volta che per questioni di salute di mia madre, mi ritrovai a dormire da lei e scoprii che aveva i capelli lunghi fin quasi alle caviglie, lei che li portava sempre raccolti in un toupet, una cipolla, molto ordinato. Bene, quando, specie da piccolo, chiedevo a mia nonna Fiorina di farmi un regalo, ignorando che l’essere una pensionata di un marinaio che aveva cresciuto otto figli non le avesse concesso ricchezze infinite, così da poter soddisfare con regali tutti i tanti nipoti, lei mi rispondeva “Ti ho fatto un nientino rilegato in oro”. Un modo per dirmi che non mi aveva fatto niente, non ho mai capito se una frase che nascondesse ironia o cinismo. Ecco, a distanza di oltre trent’anni dalla sua morte, se devo pensare a cosa sia oggi X Factor mi vengono in mente le sue parole. Un nientino rilegato in oro. Nella speranza che l’oro non si dimostri poi pirite.

Perché se non è tutto oro quello che luccica, figuriamoci quello che neanche luccica più.