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X Factor 13: tra le sorelle Napoli e Shonda Rhimes

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È una vera e propria lezione di storytelling quello di cui hanno bisogno gli autori della 13esima edizione di X Factor, divenuto ormai uno sparatutto.

X Factor 13: dalle stelle alle stalle

Amici di X Factor, io partirei da qui. O vorrei arrivare qui. Quindi riparto. Houston, abbiamo un problema. Uno dei problemi più grandi che questa tredicesima edizione del talent Sky si trova a dover gestire, senza evidentemente riuscirci, per supponenza o incompetenza, o entrambe, è infatti proprio l’appiattimento a una omologazione che va avanti stancamente senza inventiva.

Autocitazionismo onanista nella più deprecabile deriva italiana. Appiattimento a una omologazione che va avanti stancamente senza inventiva che ha cause ben evidenti, e che come risultati ha una noia mortale, anche di fronte a quelli che negli occhi degli autori dovrebbero essere clamorosi colpi di scena e, di conseguenza, emorragie di ascoltatori come neanche Star Academy ai tempi d’oro (questa è una citazione per maniaci compulsivi, se l’avete colta non compiacetevi troppo).

Deficit di Storytelling

Partiamo quindi dalle cause, perché le conseguenze le abbiamo sotto gli occhi tutti, almeno fino al momento in cui il sonno non ha il sopravvento su di noi, lasciandoci lì, tramortiti sul divano, un filo di bava che ci cola dall’angolo della bocca come tanti Homer Simpson. La prima causa, credo, sia nella scelta degli autori. Non nel senso delle scelte che gli autori si trovano a dover prendere a ogni puntata, a partire da che ragazzi e ragazze mandare avanti, perché è evidente e risaputo che sono gli autori a decidere tutto, non penserete mica che i giudici abbiano davvero voce in capitolo?

No, intendo proprio la scelta degli autori da parte di Sky, di quali autori utilizzare per scrivere le puntate di un talent sul quale evidentemente si punta ma che è evidentemente in apnea, senza idee, stanco se non addirittura morto. Ora, non dico che sia possibile coinvolgere un gigante come Shonda Rhimes. Ma sapere che esiste Shonda Rhimes nel nostro stesso pianeta non ci dice proprio niente? O almeno, non ci induce a non azzardare mosse che lei farebbe molto meglio di noi, e che in tutti i casi stanno lì, sotto gli occhi degli spettatori, spettatori pronti a fare veloci passaggi logici, confronti impietosi, coprendoci di ridicolo e di scherno?

Quest’anno avete deciso di giocarvi la carta delle eliminazioni clamorose? Bene. Ma fatelo come si deve. Non ci si può limitare a far morire uno dei protagonisti, cari miei. E non ci si può prendere il lusso di farlo morire prima che la gente ci si affezioni, altrimenti l’effetto “è morto uno dei protagonisti” non arriva, perché semplicemente il protagonista non è ancora diventato protagonista.

Shonda, aiutaci tu!

Soprattutto, qui sta un trucchetto base di chi deve raccontare una storia: se non siamo nel genere sparatutto, non possiamo far morire un protagonista a puntata. Se no diventa Dieci piccoli indiani di Agatha Christie, ma quello era un romanzo, non un talent. Certo, Shonda Rhimes lo ha fatto. In una serie tv, non in un talent, ma pur sempre dentro le nostre televisioni ultrapiatte. Ha fatto cadere un aereo con sopra buona parte dei protagonisti di Grey’s Anatomy, e poi ne ha fatti morire due, così, da un momento all’altro.

Ma lei è Shonda Rhimes, non è uno degli autori di X Factor 13 Italia. Prima ce li ha fatti amare alla follia, diventare parte non tanto del nostro immaginario, quanto della nostra vita quotidiana, li ha resi umani, veri, tangibili. Poi li ha fatti morire, via Sloan, via Lexie. Un lutto vero. Se Sloan fosse morto alla prima puntata, amen, era un belloccio in meno. E se di Sloan avessero parlato i social o le colonne laterali dei quotidiani non avremmo pianto di più. Chiaro, X Factor non è una serie tv, e non si può permettere i tempi lunghi di una serie tv, ma chiunque abbia visto una sola puntata di Grey’s Anatomy sa come si possa riuscire a commuovere qualcuno. Si chiama storytelling, una parola, a quanto pare, oggi sconosciuta.

Perché anche giocarsi i giudici andando a cucir loro addosso maschere troppo calcate è un errore. Un cattivo è molto più cattivo se ogni tanto dimostra di essere umano, debole, empatico. Sloan, per rimanere a Grey’s Anatomy, ha iniziato come incallito sciupa femmine innamorato solo di sé stesso e alla fine era uno di noi e lo amavamo alla follia nonostante tutto. Ecco, così il personaggio spiazza, e quindi conquista. Se uno cattivo fosse sempre cattivo, sarebbe il cattivo di un fumetto, ma un fumetto prima che ci abbia messo le mani un Frank Miller o un Alan Moore, di quelli in cui i cattivi erano cattivi e i buoni i buoni, mica i Batman che poi hanno permesso a Christopher Nolan di fare i suoi film o, più recentemente, A Todd Philips e Joaquin Phoenix di fare Joker. Storytelling, appunto.

Lo sparatutto

No. Ho avuto una idea. Piazziamo il ragazzo di colore con la voce che spezza i cuori, la storia strappalacrime di adozione alle spalle, l’aver imparato a cantare in chiesta, lo studio all’università, insomma, quello bravo, di talento e pure da sposare, e poi neanche lo facciamo arrivare agli HomeVisit, dove invece facciamo arrivare il cantautore di “Carote”, forte di una nuova hit che utilizza ancora una volta rime assurde, incentrate questa volta sul suo funerale, così tutti prenderanno Malika per la Crudelia DeMon di questa edizione. Questo non è storytelling.

Samuel almeno la volta scorsa era stato un cattivo strambo, un po’ come uno di quegli psicopatici di certe puntate di Criminal Minds, imperturbabile, di quelli che fanno una strage ma i vicini dicono che salutava sempre. Certo, buca lo schermo, ma la maschera del serial killer della porta accanto potrebbe anche non dare buoni frutti. Anzi, potrebbe dare buoni frutti se solo qualcuno degli autori sapesse sfruttarla. E qui veniamo alle sorelle Napoli. Se non sapete di chi io stia parlando, beh, avete tutta la mia compassione umana, la mia solidarietà, ma anche un po’ del mio schifato rimprovero. Correte a vedervi le loro interviste per “Non è l’Arena” di Giletti, magari leggetevi anche il suo libro su di loro, ma fate qualcosa per colmare questa triste lacuna.

Il caso delle Sorelle Napoli

Ovviamente un programma come X Factor non potrebbe ambire ad avere le sorelle Napoli come giudici. Credo nei miracoli ma non così tanto. Ma mi chiedo, e chiedo anche alla produzione, nel momento in cui in televisione sono apparsi personaggi come le sorelle Napoli, come sia possibile dare spazio a mezze figure, televisivamente parlando, come Samuel, e mezze figure in toto come Malika e uno che non riesce neanche volendo a andare oltre lo “spacca di brutto”.

Cioè, esiste un abisso incolmabile, senza se e senza ma. E se proprio uno non può ambire a avere le sorelle Napoli, perché il mondo dei sogni quasi mai si concretizza nel mondo degli svegli, che so, andassero a prendersi un Pigi Diaco pronto a commuoversi per chi fa una cover di Bertoli, lì con il suo cagnolino Ugo tra le braccia. Cioè, quella è televisione, altroché Cattelan che fa Cattelan e quel mesto teatrino sempre uguale a se stesso. Ma siccome il mesto teatrino è quel che passa il convento, preferisco fare qualcosa che è decisamente irrituale, cioè chiuderla qui senza neanche dirvi chi è passato e chi è tornato a casa, dandovi direttamente appuntamento a settimana prossima, tanto alla fine vince Kimono, a buona notte al secchio.